14 aprile 2012

Il modo di percepire la propria persona come soggetto sociale e in termini di capacità, abilità, amabilità, potenzialità, determina il livello di fiducia che un individuo ha, verso se stesso. 
Egli può operare delle scelte (o non scelte) e attuarne i comportamenti conseguenti, facendo affidamento sulle proprie qualità la cui valutazione è espressa dal grado di autostima.


L'autostima, però, non necessariamente esprime il valore oggettivo di un individuo, proprio perché questi si affida alla percezione di sé, che è sottoposta a fattori emotivi contingenti o di fondo e, principalmente, alle credenze di base cui fanno riferimento tutte le attività cognitive.


Dali - nascita di un nuovo mondo
Se le credenze non sono percepite in modo diretto dal livello cosciente, l'autostima è una valutazione dello stato cosciente: essa, in un certo senso, è la sintesi delle credenze di base espresse in termini di valore.



L'autostima, pertanto, finisce con il rappresentare solo le convinzioni interiori del valore personale, ma non la propria oggettività. 


Ciò è tanto più vero, quando ci riferiamo a persone afflitte dalle varie forme e intensità dell'ansia sociale (timidezza, fobia sociale, eccetera). 
Posta in questi termini la quaestio, l'implicazione che ne deriva, è che l'autostima è anche espressione del livello di coscienza e consapevolezza dei difetti, dei pregi, dei limiti della propria persona. Così configurandosi, essa è indicatore del tasso di gradimento delle proprie prerogative non solo in termini di levatura della personale operatività sociale, ma anche della propria persona nella sua globalità.


In una persona timida o afflitta da altre forme di ansia sociale, non costituendo una valutazione oggettiva, l'autostima assorbe i "sapori" dell'emotività. Diventa causa o artefice dei sentimenti, indirizzati a se stessi, di disprezzo, odio, repulsione, rifiuto. Impulsi emotivi che escludono l'auto compassione, l'auto comprensione, l'auto conforto, e che spingono invece, verso l'autocondanna, l'autocritica esasperata, l'auto biasimo, l'auto colpevolizzazione, l'auto esclusione.


In breve l'autostima diventa strumento di non accettazione del sé. Tutto questo processo fenomenico produce un'azione consistente e persistente di rinforzo delle credenze di base e intermedie. 
Fenomeni che entrano nel circolo vizioso dell'ansia sociale, questa – quindi - si auto alimenta con tanta maggiore intensità, quanto più basso è il livello di autostima.


L'accettazione non è una resa condizionata o incondizionata dello status quo, e non si esprime con la rassegnazione, è il prendere atto della realtà senza gironzolarvi intorno con valutazioni, giudizi, dietrologie, rimuginii. È il superamento della tendenza ad associare a ogni evento un valore positivo o negativo, permettendoci di riconoscere la realtà, con spirito libero, per ciò che è, oggettivamente, al di là dei condizionamenti emotivi e sociali.


Accettare se stessi è un atto d'amore, forse, il più importante dei gesti d'amore. Star bene con se stessi è un obiettivo imprescindibile. Non è possibile alcuna soluzione della timidezza, o dell'ansia sociale in generale, in assenza dell'amor proprio, e questo è raggiungibile solo attraverso l'accettazione di sé.
Come ho scritto in un mio precedente articolo, “l'accettazione non va richiesta, non va meritata o conquistata, va fatta e basta”.


C'è anche un altro fattore positivo derivante dall'accettazione, si acquisisce una maggiore elasticità mentale, e questo è un fatto molto importante. Chi ha letto il mio libro "addio timidezza", sa che uno dei problemi principali per superare l'ansia sociale è riuscire a rendere più dinamico l'insieme delle credenze disfunzionali, far sì che le credenze, siano più articolate e oggetto di revisione attraverso l'invalidazione e la rielaborazione.


L'accettazione, non essendo un processo giudicante, ma di oggettivazione della realtà individuale, permette di guardare se stessi "dall'esterno", inserendo quindi i comportamenti e le qualità della propria persona, nella relatività che le si addice, cioè nel contesto dei fenomeni contingenti e raggiungendo una capacità di valutazione, orientata alla ricerca delle soluzioni, piuttosto che respingersi o piangersi addosso.

3 commenti:

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  2. Buongiorno gentile Sig.Zizzari

    Ho acquistato tutti i suoi libri. Ho letto quasi tutti i suoi post su questo blog, oltre a diversi libri e manuali sulla timidezza.

    Ho 26 anni e sono in cura da quasi due anni da una psicoterapeuta cognitivo-comportamentale che reputo molto professionale (a differenza dei "colleghi" con cui ho avuto a che fare prima di lei, dei ciarlatani, per usare un eufemismo), e anche in cura farmacologica.

    Diverse volte sia Lei (sig.Zizzari) che la psicoterapeuta avete parlato di accettazione.

    Ma non capisco. Secondo me c'è un errore di fondo, per il quale non riesco a capire questa questione dell'accettazione. l'introversione e le relazioni sociali. L'errore di fondo, o comunque la cosa che non riesco a concepire, è: "come è possibile accettarsi, se la timidezza di per sè è una cosa del tutto negativa?"

    Lei stesso parla nel suo libro di maledizione, di una guerra contro la timidezza (considerazioni che condivido in pieno). E' una cosa che si infiltra in ogni dove della persona, e insieme alla depressione ne annulla la capacità di porre in atto la volontà di "uscirne". Quindi cosa c'è da accettare in questo?

    Potrei accettare l'introversione, che non è associata a scarsa autostima, autosvalutazione, isolamento e quant'altro, ma proprio non riesco a comprendere questa "accettazione".

    Le chiedo se gentilmente può spiegarmi meglio questa accettazione.

    Grazie

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    1. Farò qualcosa di più. Dedicherò il prossimo articolo proprio a questo argomento. Farò così perché non sei l'unico ad avere questi dubbi, e ciò mi spinge a pensare che sia opportuno sviscerare questo tema in modo più compiuto e, pertanto, poco adatto a essere oggetto di risposta a un commento.
      Comunque ti ringrazio di questo tuo contributo che, in me, ha funzionato da stimolo.
      Permettimi di osservare che parole come "maledizione" e "guerra" che ho utilizzato nel mio libro, sono inseriti in un contesto discorsivo "empatico" che dà spazio alla emotività, perché non sono soltanto razionale. Noto, però, che ciò sortisce dei fraintendimenti nell'interpretare lo spirito con cui ci si approccia a un percorso "terapeutico" che invece, dovrebbe essere all'insegna di una modalità non giudicante: penso che andrò ad eliminare quelle parole dal testo del libro.
      Comunque la risposta a queste tue osservazioni le potrai trovare sul prossimo articolo cui darò il titolo "Il senso e l'importanza dell'accettazione per la timidezza e l'ansia sociale".

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Grazie per il commento