20 maggio 2013


Le persone timide percepiscono chiaramente la propria diversità. Ciò risulta evidente, ai loro occhi, per la non conformità dei propri comportamenti rispetto a quelli comunemente adottati dagli altri, per gli obiettivi che non riescono a raggiungere ma che altri soddisfano normalmente, per le difficoltà che provano nel relazionarsi agli altri che questi non hanno, per la diversa qualità della vita tra essi e gli altri.
I timidi vedono gli altri riuscire, laddove essi si bloccano, falliscono o pongono in essere strategie di fuga o evitamento. Confrontano continuamente i risultati propri con quelli altrui.

Nel misurare queste differenze, nel constatare questi diversi livelli o frequenza di successi, queste diverse abilità nel districarsi nelle situazioni sociali, gli individui timidi (ma anche tutte le persone che soffrono di una qualsiasi altra forma di ansia sociale) si convincono che in loro c’è qualcosa che non va.

Joan Mirò - inverted
Quel qualcosa che non va tende a divenire un valore assoluto, e dunque, il riferimento non è più la singola specifica situazione, il particolare contesto, quel preciso aspetto di sé, quel determinato comportamento, ma la propria persona nella sua globalità, interezza. 
Maggiore è il gap percepito, più forte è la tendenza a ritenersi diversi per “costituzione”, per natura, per indole innata. 

Nel momento in cui la differenza tra sé e gli altri è concepita come dato costitutivo globale della persona, l’individuo timido, tende a determinare una concezione di sé che può sfociare in due direzioni principali, le quali agiscono come fattore di rinforzo delle credenze disfunzionali, di perpetuazione ulteriore dei pensieri automatici negativi, di alimentazione del circolo vizioso della timidezza e delle altre forme di ansia sociale.

Una direzione è quella di rinchiudersi in una rigida idea di indipendenza o di autosufficienza. In questo caso il soggetto è portato a isolarsi dai contesti sociali per affermare una presunta "purezza" del proprio carattere e ponendosi nel ruolo di colui che è chiamato a difendere tale prerogativa. 


Queste persone hanno assunzioni e regole implicite che li portano a considerare, forma di difesa della propria libertà e autonomia, anche comportamenti che, nella realtà, sono fortemente disadattivi o non funzionali agli scopi.

L’altra direzione è all’insegna dell’ipercriticità. La persona timida, in questa modalità, percepisce le differenze come gap, come errore, come disabilità, come distorsione, come malformazione. Concepisce la propria persona, (nella sua globalità) come sbagliata. Qui l’idea dell’imperfezione non è legata alla specie umana e alla sua fallacità, è un’idea di difetto di “costruzione”. 

Il soggetto timido che precipita in questa logica considera se stesso colpevole e vive emotivamente questo senso di colpevolezza. È portato sovente a considerare questa condizione come a uno stato di condanna perenne. 
Quando il senso di colpa non è più vissuto solo verso se stessi, quando la difficoltà al cambiamento si trasforma in una via senza uscita, quando non si avvertono più in se stessi prerogative positive, una tale condizione può facilmente sfociare nella depressione, nella quale il sentimento della perdita assume caratteri tragici.

Nella timidezza il sentirsi sbagliati, apre la strada alla formazione di assunzioni e regole implicite che vertono sulla necessità della perfezione, sulla doverosità di non commettere errori, ma anche al bisogno di un mentore quando l’idea della propria imperfezione è tale da condurre al convincimento di essere incapaci di svolgere un ruolo o un compito autonomamente. 

Il percepirsi sbagliati produce anche una marcata paura del giudizio altrui, molto più che in altre tipologie di timidezza, infatti, poiché ci si considera carenti, la determinazione del valore della propria persona è delegato alle valutazioni degli altri. Questa tendenza determina anche comportamenti caratterizzati da modalità passive.

Ritenere di essere sbagliati può coincidere con una credenza disfunzionale di base, ma può anche essere una diretta derivazione di essa. 

Comunque sia, va sempre tenuto presente che si tratta di interpretazioni emotive che riguardano la definizione del sé. Quindi, quando parliamo di interpretazioni emotive della realtà, siamo sempre di fronte a modelli descrittivi che sfuggono all’oggettività del mondo reale - il quale, invece, viene rappresentato attraverso gli effetti che questo ha indotto nella propria interiorità: il risultato dell’interazione con lo stimolo ricevuto.

2 commenti:

  1. Leggendo questo articolo sono rimasto sconvolto: descrive esattamente la mia situazione. Tutto quello che ho sempre pensato in modo confuso, senza mai riuscire a metterlo completamente a fuoco, in questo articolo è descritto in modo impeccabile. Solo adesso comprendo pienamente che la mia incredibile timidezza mi ha rovinato la vita fino ad ora (ho 26 anni) e mi avvicino sempre più ad un punto di non ritorno. Infatti, se mi guardo indietro, vedo che ho fallito praticamente in tutto: nello studio (nonostante le grandi aspettative dei miei genitori, che so di aver deluso profondamente), nello sport, negli amori, nel lavoro (attualmente sono disoccupato e non ho alcuna prospettiva futura), nelle relazioni sociali in generale. Da anni ormai sono caduto in una profonda spirale di depressione che mi sta divorando sempre di più. E come viene descritto nell'articolo, ormai mi sono profondamente convinto di essere una persona completamente inutile e di non avere alcuno scopo nella vita. Mi capita sempre più spesso di pensare di voler farla finita, pur sapendo di non avere il coraggio per mettere in atto una simile decisione. Vivere in questo modo non ha alcun senso, è una continua tortura. Incapace di entrare in qualunque contesto sociale, la mia vita ormai è relegata alla mia stanza. Non so davvero come fare per fermare tutto questo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ho anche descritto gli errori cognitivi in cui si cade, le logiche - talvolta inconsapevoli - in cui si precipita e che alimentano l’ansia sociale e le comorbilità che ne possono derivare, come nel tuo caso. Il problema più prossimo risiede nei pensieri negativi che pervadono la tua mente, questi perpetuano la tua condizione, la rafforzano, perché rappresentano quello che è diventato il tuo modo abituale di percepire e concepire te stesso e il mondo sociale che ti circonda.
      Avrai anche compreso che i convincimenti negativi che hai sviluppato nei confronti della tua persona hanno un’origine emotiva, cioè si sono costruiti su una tipica distorsione cognitiva che viene chiamata “ragionamento emozionale”. Il tuo pensiero e le tue valutazioni si sviluppano sulla base degli scoramenti che provi, quindi sulle spiacevoli emozioni che provi per la tua condizione: la tua negatività non è figlia della tua persona, ma dell’ansia sociale e della depressione, della ripetitività dei pensieri negativi che attraversano la tua mente e che finiscono col convincerti che sei per davvero un fallito e senza uscita.
      Permettimi di osservare che forse le aspettative dei tuoi genitori ti hanno danneggiato svolgendo una funzione di pressione psicologica troppo forte, la disoccupazione non è un problema solo tuo, ma generale di tutto il mondo occidentale: il tuo presunto fallimento, probabilmente, non è poi tutta colpa tua e, se lo è, va addebitata alla tua timidezza. E ciò è cosa ben diversa dall’affermare il fallimento di te in quanto persona.
      So che per te non è facile neanche reagire, e forse non sai neanche da dove cominciare. Tutto questo, paradossalmente, è addirittura normale: la depressione affievolisce la volontà e la capacità di reazione poiché sei portato a considerare inutile qualsiasi tentativo di cambiare, e questa considerazione di inutilità è, per te, una cosa decisamente concreta.
      Eppure se entri nella logica non del “fare”, ma del “provare a fare”o, meglio ancora, del “fare quel che ti riesce di fare”, senza porti un obiettivo finale unico, ma tanti piccoli obiettivi che puoi riuscire a percepire come fattibili, forse puoi cominciare a intravvedere la luce alla fine del tunnel.
      La psicoterapia a indirizzo cognitivo comportamentale è quella che ottiene i migliori risultati nel contrasto alle sofferenze da ansia sociale e da depressione. Da alcuni anni all’interno delle strategie cognitivo comportamentali si è sviluppata anche una nuova tecnica che fa ricorso alla “meditazione consapevole” che prende spunto da alcune pratiche buddiste e alla cultura dell’accettazione. Queste due tecniche sembrano funzionare molto bene anche con le persone che hanno avuto delle ricadute nella depressione. A questi temi ho anche dedicato alcuni articoli che ti segnalo:
      http://www.addio-timidezza.com/2012/09/meditazione-consapevole-e-accettazione.html (parte prima)
      http://www.addio-timidezza.com/2012/09/meditazione-consapevole-e-accettazione_12.html (parte seconda)
      http://www.addio-timidezza.com/2013/02/il-senso-e-limportanza-dellaccettazione.html (prima parte)
      http://www.addio-timidezza.com/2013/02/il-senso-e-limportanza-dellaccettazione_6.html (seconda parte)
      http://www.addio-timidezza.com/2012/04/laccettazione-come-conquista.html (dell’autostima)
      http://www.addio-timidezza.com/2011/05/sei-timido-ansioso-pratica.html
      http://www.addio-timidezza.com/2011/03/la-psicoterapia-cognitivo_28.html (come si snoda)
      http://www.addio-timidezza.com/2011/03/la-psicoterapia-cognitivo.html (caratteristiche)
      Forse ti conviene provare. D’altra parte, come si suol dire, tentare non nuoce.

      Elimina

Grazie per il commento