Il sentirsi inabile nell’esprimersi, fenomeno tutto
cognitivo, ha come conseguenza visibile, l’inibizione ansiogena.
Quest’ultima
scaturisce da un turbinio di pensieri automatici negativi che, in quanto tali,
tendono a sfuggire alla presa d’atto dello stato cosciente e possono
presentarsi anche sotto forma d’immagine mentale.
I pensieri automaticinegativi rappresentano la sintesi cognitiva finale di un processo che coinvolge
credenze e metacognizioni, una volta che pervengono alla mente, attivano
diverse aree del nostro cervello.
L’amigdala, centro nevralgico che controlla
le nostre emozioni, produce il sentimento della paura, della sopravvalutazione
del rischio e delle minacce. In questo stato emotivo, anche la pur minima
probabilità che possa accadere qualcosa di spiacevole, appare più che una
semplice possibilità, diventa l’unica ipotesi plausibile, una certezza.
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Marco Landi (Tenax) - dentro il mio silenzio |
L’ipotalamo, che ha la capacità di porre l’organismo in stato di allerta e
predisporlo alla fuga o alla lotta, attiva i sintomi dell’ansia fisiologica
che, normalmente, svolge la funzione di sentinella di allerta ma che, in una
persona ansiosa, ha l’effetto di un terremoto.
In queste situazioni, l’individuo timido, convoglia tutta
l’attenzione dell’attività cognitiva, sull’esistenza del problema in sé e sulle
convinzioni d’inadeguatezza riguardanti se stesso.
Con una tale disposizione
mentale, le abilità cognitive relative al problem-solving, vengono messe fuori
gioco. La facoltà del ragionamento viene a trovarsi in una condizione d’imbrigliamento
e, così, le conoscenze di cui si è in possesso, non vengono attinte in quantità
e frequenza sufficiente, tanto che gli elementi presi in considerazione
costituiscono un repertorio estremamente esiguo e inadeguato per valutazioni
efficaci.
L’ansioso sociale, qual è la persona timida, resta, quindi,
bloccata sull’idea di avere un problema senza riuscire a disporsi verso la sua
soluzione.
Una tale condizione di stallo alimenta il fenomeno circolare delprocesso cognitivo iniziale, delle conseguenti emozioni negative e dei sintomi dell’ansia, accentuando le successive evocazioni negative dei pensieri e delle
immagini mentali, e il permanere degli stati ansiogeni.
Ho accennato, poc’anzi, al fatto di come l’organismo si sia
preparato, per mezzo dei sintomi dell’ansia, all’azione della lotta o della
fuga: la scelta comportamentale del soggetto timido è la fuga.
Quando si trova
in situazioni che prevedono conversazione o comunque forme di comunicazione
interpersonale, l’individuo timido attua la fuga per mezzo dell’evitamento, dell’astensione
a prendere parte alle conversazioni, nell’estraniarsi da esse, nella scena
muta.
A volte, però, sceglie la strategia della cosiddetta fuga in avanti, cioè
il buttarsi nella mischia nonostante l’ansia; purtroppo, in questi casi,
l’inibizione ansiogena gli tira brutti scherzi: lo induce a farfugliare, a
esprimersi in modo confuso, a perdere il continuum del discorso, a non trovare
le parole, al borbottio, a balbettare, a riconoscibile insicurezza nel tono
della voce, ad apparire poco convinto o conscio di ciò che dice, a vuoti di
memoria.
In conclusione possiamo dire che la difficoltà
nell’esprimersi è l’espressione della permanenza di uno o più schemi cognitivi
disfunzionali.
Questi, in certi casi, quando afferiscono a definizioni negative
del sé, impediscono, all’ansioso sociale, di praticare abilità sociali possedute,
per via delle inibizioni ansiogene; in altri casi possono anche essere il
risultato di mancato o errato apprendimento di modelli relazionali. Di questi
aspetti tratterò nel prossimo articolo.
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