Ci sono aspetti cruciali che riscontriamo nei pensieri dell’ansioso
sociale, il bisogno di appartenenza a un gruppo o a una comunità e il giudizio
etico o morale della propria persona.
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Nicoletta Spinelli - La maschera 4 - olio su misto |
Mentre nel primo caso il problema dell’apparire si pone come
antiscopo finalizzato a evitare di fare emergere o rendere visibili agli altri
proprie presunte inadeguatezze, nel secondo è centrale il sentimento dellavergogna per non essere corrispondente a un sé desiderato e idealizzato.
Tutti noi adottiamo dei coping (strategie comportamentali
per fronteggiare le situazioni) per farci accettare, per ottenere
riconoscimenti e ruoli sociali; tentiamo cioè di esaltare le nostre qualità
positive cercando di apparire positivamente e appetibili.
Nella normalità tali comportamenti sono finalizzati allo
scopo di essere accettati o considerati, negli ansiosi sociali, nei timidi,
sono finalizzati a evitare il giudizio negativo degli altri.
Questa differenza può apparire insignificante, ma è invece
sostanziale.
Infatti, nella normalità, lo scopo è l’accettazione, nell’ansia
sociale lo scopo è l’antiscopo, cioè l’evitamento dell’apparire in modo
negativo.
Per chiarire meglio questo concetto farò un esempio.
Alberto, che vuole conquistare il cuore di Carla, si fa bello,
cura il proprio aspetto, assume comportamenti ora da macho, ora gentili,
cercando di dosarli al meglio, cerca di mostrarsi efficiente, efficace e abile.
Michele, che vorrebbe conquistare il cuore di Angela, si preoccupa di non fare
brutte figure, evita di esporsi perché teme di apparire come un fallito, un
incapace e, giacché fondamentalmente si percepisce inadeguato, evita di esporsi
perché si vergogna di essere ciò che pensa di sé.
Il risultato è che mentre Alberto si fidanza, Michele resta
solo. Il primo raggiunge il suo scopo, il secondo il suo antiscopo.
L’appartenenza sociale, il far parte di un gruppo o una
comunità, è uno dei bisogni primari nella specie umana e in gran parte del
mondo animale. Nella società umana, che ha raggiunto livelli di complessità
elevata, l’appartenenza sociale fa la differenza tra equilibrio e squilibrio,
affettività e solitudine, l’avere un ruolo sociale o esserne escluso, far
carriera o restare al palo, avere dei riconoscimenti o essere ignorato.
La questione dell’accettazione sociale si coniuga con quello
della competenza.
Nel momento in cui una persona sente di avere le giuste
abilità e capacità, quella dell’accettazione sociale non costituisce un
problema e le energie mentali si orientano verso il problem solving. Nell’ansia
sociale e, quindi, nella timidezza, l’accettazione sociale costituisce un
problema perché il soggetto timido percepisce se stesso come inadeguato a vario
titolo.
Alla percezione d’inadeguatezza del sé sottendono credenze
che fanno riferimento a una descrizione del sé definito negativamente in vario
modo: come incapace a fronteggiare con efficacia situazioni ed eventi, come
inabile all’interazione sociale, oppure “difettoso” di nascita, o non amabile o
non attraente come persona.
La percezione d’inadeguatezza induce al comportamento evitante e alla paura del giudizio negativo degli altri oppure al comportamento
ansioso.
Quando l’ansioso sociale cerca di fronteggiare la situazione temuta,
percependosi inadeguato, è travolto da pensieri previsionali negativi che
attivano i processi dell’ inibizione ansiogena. In un modo, o nell’altro, il
soggetto timido finisce con il collezionare insuccessi.
La reiterazione dell’insuccesso, per evitamento o per
effetto dell’ansia, aumenta e rafforza la percezione negativa del sé favorendo,
di conseguenza, l’ulteriore abbassamento dell’ autostima.
A fronte di questo
senso di debacle, dell’insorgenza automatica della paura del fallimento e dei
pensieri negativi che la sorreggono, l’ansioso sociale cerca di porre rimedio ricorrendo
con maggior frequenza all’evitamento trasformandolo, così, in un comportamento
automatico.
Il risultato è la convalida e il rinforzo delle credenze
negative sul sé. La reiterazione del comportamento evitante rafforza
soprattutto l’idea di un sé inconcludente e fallimentare come persona.
A tutto ciò la persona timida reagisce giudicando
negativamente se stessa.
La forte discrepanza tra ciò che vorrebbe essere e ciò che è,
o appare, nei comportamenti che pone in essere, la induce a un giudizio di
nullità personale. L’associazione tra l’idea dell’inconcludenza e quella del
fallimento produce anche un giudizio etico morale.
Il soggetto timido, non solo sente su se stesso il peso di un’incapacità,
ma anche quella di non corrispondere a proprie e personali categorie etiche o
morali cui conferisce valore di riferimento valido anche per gli altri. Si
giudica negativamente perché trasgredisce alle regole in cui crede.
Qui scatta
la vergogna.
La paura di figurare negativamente agli occhi degli altri,
si coniuga con la vergogna di apparire come soggetto fuori riga.
L’ansioso sociale avverte il senso di colpa di non essere
corrispondente all’idea idealizzata di se stesso, spesso, all’idea di un sé
perfetto, una sorta del superuomo nietzschiano.
Questi alti standard cui
sottopone se stesso diventano imposizione dell’impossibilità.
Giacché il suo
scopo è l’impossibile, non giunge mai a vedere successi, nemmeno parziali,
nelle sue attività sociali, né gli riesce di contestualizzare le proprie
esperienze.
Sentendosi colpevole, se ne vergogna e, quindi, teme
fortemente che gli altri possano accorgersi delle sue colpe.
Si vergogna dell’immagine
di sé che trasmette agli altri, non perché il suo sé sia oggettivamente
negativo, ma perché egli considera e interpreta se stesso negativamente.
Considerandosi inadeguato, senza valore, si percepisce visibile agli altri.
Una
visibilità che lo terrorizza, non vuole apparire ciò che ritiene di essere.
Ancora una volta la sua ricetta è l’evitamento. Evita, così non appare. Evita, perché
non vuole rischiare, vuole solo certezze. Evita, così resta prigioniero dei
suoi schemi e delle sue paure.
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