20 ottobre 2017


PRIMA PARTE

Quando parliamo di timidezza ci riferiamo a un disagio che si dimostra assai complesso e variegato, spesso sorretto da più temi di vita (elaborazioni mentali incentrate sulle personali vulnerabilità emotive, a esempio, i temi dell’ insicurezza, dell’inadeguatezza, del disamore, dell’indegnità, della difettosità di nascita, eccetera), complessità che in tanti casi potrebbe anche far pensare alla presenza di comorbilità. 

Anna Maria Lucarini - attesa delusa
Nella timidezza si intrecciano componenti depressive, fobiche, ansiose, anche se tali fattori non vanno a costituire patologie vere e proprie.

La timidezza è sempre riferita agli altri, cioè, all’interazione con essi. Nelle relazioni più ravvicinate, come quelle amicali o di coppia, entrano in gioco le aspettative e, correlate a queste, i temi della delusione, della perdita, del rifiuto.

Ma facciamo qualche passo indietro per comprendere da dove si originano le aspettative relazionali.

Per far fronte ai propri bisogni, sin dai primi giorni di vita, il neonato ripone delle attese nei confronti di colui o coloro che lo accudiscono e, dal modo in cui il genitore (soprattutto la madre) risponde alle sue richieste di assistenza e cura, il bimbo sviluppa degli stili di attaccamento, credenze sia su sé stesso, sia sul caregiver (accudente).


Già sul finire del primo anno, nel bambino si sono determinati degli stili di attaccamento che si formano in funzione del modo in cui il caregiver ha risposto alle aspettative dell’infante. Sono stati delineati quattro diversi stili di attaccamento: il sicuro, l’ansioso evitante, l’ansioso ambivalente ed il disorganizzato.

Fondamentale nella formazione di queste credenze è la prevedibilità della risposta genitoriale. 

Se il caregiver è una figura distratta, incoerente, instabile, incostante, poco disponibile o che non riesce a comprendere le richieste di accudimento e sicurezza del bambino, questi genera dei modelli operativi interni di tipo ansioso, ciò perché ha difficoltà nel prevedere il possibile comportamento del genitore. 

Il caregiver viene pertanto visto come un soggetto non affidabile e, a seconda delle credenze che si sono formate, comincerà a formarsi schemi di pensiero che possono essere sintetizzati alla maniera transazionale: io sono ok, tu no; io non sono ok e nemmeno tu; io non sono ok, tu sei ok.

Con il sopraggiungere dell’adolescenza, e poi nell’età adulta, il soggetto stabilizza e, escludendo il pattern sicuro, radicalizza le credenze che si sono formate su sé stesso, mentre quelle riguardanti i caregiver si trasformano in credenze generalizzate sull’altro o sugli altri.

È questo quadro storico che bisogna tener presente quando andiamo a ragionare sulle aspettative riposte negli altri, nell’altro o in sé stessi e il timore delle emozioni come quelle della delusione.

Con la stabilizzazione delle credenze derivanti da un attaccamento ansioso o disorganizzato cominciano a formarsi anche delle assunzioni e credenze intermedie come possono essere il “mito dell’amico” e idee condizionali o doverizzanti del tipo “se mi ama deve capire quello che penso”; “se è interessata/o a me, si comporterà come io penso debba fare”; “una amico deve essere sempre pienamente disponibile in tutte le circostanze”.

Le aspettative nei confronti degli altri o dell’altro scaturiscono da alcuni bisogni sociali di base e dal timore, molto forte, che questi possano non essere soddisfatti e determinare delusione e sofferenza.


I bisogni cui mi riferisco, sono quelli sociali di base, sicurezza e certezze affettive, approvazione, accettazione.

0 commenti:

Posta un commento

Grazie per il commento