Il ritiro sociale è la conseguenza di una resa emotiva.
Come
nelle forme di ansia sociale, anche nella timidezza si verifica un susseguirsi
d’insuccessi; spesso, però, questi sono apparenti, supposti, previsti ma non
vissuti, evitati; in breve, frutto del solo pensiero umano.
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Giorgio De Chirico - solitude |
La timidezza esiste quando si hanno pensieri negativi su sé
stessi che vanno a descrivere, o definire, le qualità personali in relazione a
tutto ciò che ha a che fare con la socialità, l’essere individuo sociale,
l’agire e il vivere in un sistema di interazioni interpersonali.
Se una persona timida si trova a vivere, o a dover
affrontare, una situazione che attiva nella propria mente un flusso di pensieri
che, in un modo o in un altro, sono emanazione di quelle convinzioni negative
del sé, finisce col fronteggiare l’esperienza sentendosi già sconfitta a
priori.
Il soggetto timido va incontro agli insuccessi, non per una
propria incapacità operativa, ma perché fa un autogol, in preda, com’ è,
all’ inibizione ansiogena.
L’inanellare fiaschi nelle esperienze sociali, (nel mondo
amicale, nei rapporti di coppia, sul lavoro, ecc) induce le persone timide a
esprimere giudizi negativi su sé stessi. Valutazioni che, ovviamente,
riguardano le qualità personali.
Allo stesso tempo, gli insuccessi favoriscono il radicarsi e
l’ulteriore perversità dei pensieri automatici negativi e, soprattutto, quelli
di carattere previsionale.
Avendo espresso un giudizio negativo sulle proprie qualità
personali, l’individuo timido comincia col considerare la propria persona, e
nella sua globalità, come oggetto di un destino crudele. Possiamo dire che le
sue previsioni negative cominciano a riguardare l’intera vita futura.
In certe forme di ansia sociale, come anche nei disturbi
dell’umore, l’idea del futuro negativo prestabilito può giungere alle estreme
conseguenze.
Un altro fattore che va preso in seria considerazione.
Il pensiero previsionale incentrato sulla sofferenza.
Una persona timida che ha difficoltà a relazionarsi con gli
altri, che vive tali circostanze con disagio, con impaccio, stando da parte,
talvolta in preda a flussi di pensieri negativi su sé stessa o anche sugli
altri, presa dallo sconforto, comincia a incentrare le valutazioni sui propri
comportamenti futuri sull’ antiscopo, cioè a porsi l’obiettivo di evitare una
sofferenza piuttosto che vivere l’esperienza.
“Perché uscire con la comitiva se con loro mi sento a
disagio? In fondo non farò altro che starmene in disparte, a fare la solita
scena muta e a sentirmi una persona fallita”; “Chi me lo fa fare a passeggiare
per strada da solo/a e sentirmi gli occhi degli altri addosso?”; “Andare da
sola/o al cinema per sentirmi una persona sfigata/o?”.
In questi esempi di ragionamenti possiamo rintracciare la
potenza che ha la ricognizione sulle sofferenze nel pensiero previsionale.
Al
presagio che la sofferenza si verifichi, la mente dell’ansioso sociale si
blocca, non procede oltre.
L’idea della sofferenza, o la sua espressione in
forma di immagine mentale, si ferma al momento dolente, non va oltre: la
sofferenza, l’insuccesso, il rifiuto, il giudizio negativo degli altri,
rappresentano già il clou dell’esperienza, il momento topico, anzi, IL momento.
Il cosa potrebbe accadere “dopo” non appartiene al processo logico dell’ansioso
sociale nelle sue valutazioni previsionali.
Il presagio è accettato come una certezza, e dato che è fioriere
di sofferenza, l’esperienza va evitata.
L’insieme di questi fattori costituiscono la motivazione
alla demotivazione, la causa ultima che determina il perseguimento dell’antiscopo.
Poco per volta il soggetto timido si chiude sempre di più dentro sé stesso,
quanto più persevera in ciò, più si ritira dalla vita sociale.
Finisce col preferire la propria cameretta, le quattro mura
di casa, magari un pc e Internet.
Esce sempre di meno, le amicizie e le
frequenze si assottigliano fino ad annullarsi.
Il ritiro sociale è solitudine interiore, dolore della non appartenenza.
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