“Il mondo è una nostra rappresentazione”, affermava Schopenhauer,
e non aveva tutti i torti, ma più chiaro lo è Epitteto, filosofo contemporaneo
di Tacito, nell’affermare che: “Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini,
ma l’idea che gli uomini formulano sui fatti”.
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Umberto Boccioni - Stato mentale 3 |
La percezione dell’essere invisibili più che una condizione,
è uno stato mentale.
Ma perché una persona timida, o fobica sociale, descrive le
proprie difficoltà nell’interazione con gli altri utilizzando la metafora
dell’invisibilità?
Perché la conoscenza implicita[1]
di sé, e di sé-con gli altri, non riesce a tradursi, compiutamente, in una
conoscenza esplicita che sia memoria di emotività regolate funzionalmente: i
traumi, il dolore, le sofferenze, le percezioni dell’altro (soprattutto le
figure di attaccamento) non sono state superate e hanno lasciato sul terreno
una memoria esplicita che definisce negativamente il sé e/o gli altri.
La metafora dell’invisibilità rimanda al dolore della non appartenenza sociale.
I continui insuccessi nell’interazione interpersonale
proiettano la persona timida in uno stato di solitudine mentale prima ancora
che di quella sociale.
È invisibile perché non riesce ad attrarre su di sé l’interesse
amorevole degli altri.
Più che altro vive come in una condizione di sospensione: è perso
tra l’idea del non saper fare o del non saper cosa fare; è oppresso dalle paure del fallimento, del rifiuto, del giudizio negativo altrui, di fare brutta figura, di trasmettere un’immagine negativa di sé; è in balia dell’ inibizione ansiogena che frena la memoria, il ragionamento, il movimento.
Percependosi inadeguato spera di essere risucchiato dall’azione
altrui; cosa che non accade o, quando accade, si trova in uno stato di
dissociazione mentale tale da non riuscire a cogliere l’offerta.
La critica spietata agli altri o a sé stessi è dietro
l’angolo.
Gli altri possono apparire insensibili e contro di loro si scatena
la verve moralista su cui l’ansioso fa leva per spiegare o giustificare i
propri insuccessi relazionali.
Anche il sé è colpevole. L’ansioso sociale si giudica in
vario modo, reietto, vile, privo di personalità, di carattere, debole, inconsistente.
Ma su tutto spicca il giudizio che deriva in modo più diretto dal sistema di
credenze sul sé, quell’idea di inadeguatezza che pervade il proprio percepirsi
implicito e che caratterizza, da forma e significato alle sue paure.
Nel proprio dialogo interiore, così come nell’immaginazione
e nei processi di valutazione, egli è vittima dell’altrui comportamento ma,
allo stesso tempo, è persecutore di sé stesso e, mosso dal disperato desiderio
di essere accettato, si propone (anche come sola idealizzazione del sé - con
gli altri) come salvatore. Come nel triangolo della tragedia, egli ricopre
tutti i ruoli: la vittima, il persecutore e il salvatore.
Non riuscendo a cogliere il significato della metafora dell’invisibilità,
a collocarla nella mancata o disfunzionale regolazione delle emozioni e nel
contesto di un insieme di credenze in cui si annidano elementi di
disfunzionalità organizzate (benché dannosa, anche la disfunzionalità ha una sua logica), l’ansioso sociale la vive alimentando, ancora una volta, le sue
abituali emozioni negative.
[1]
Quella implicita è conoscenza (o memoria) innata, tacita e procedurale, che non
utilizza il linguaggio verbale e ha, quindi, una base genetica. Essa
costituisce un patrimonio che abbiamo in comune (anche se con differenze) con
molte specie animali. La si può anche descrivere come un insieme di
disposizioni o tendenze innate. La conoscenza esplicita (o memoria esplicita)
si fonda sul linguaggio verbale ed è dunque, dichiarativa. La conoscenza o
memoria esplicita presuppone, pertanto, uno stato di coscienza attivo, il senso
di sé e degli altri. Fondandosi sul linguaggio verbale, ha a che fare con la
coscienza che è una prerogativa solo umana piuttosto recente in termini
evoluzionistici, forse da collocare all’età delle prime pitture rupestri.
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