8 maggio 2018



Benché vi siano molte forme di timidezza, l’ansia da relazione è forse quella che più di ogni altra, nell’immaginario collettivo, appare quella rappresentativa e descrittiva, per antonomasia, della timidezza.

Esteriormente è riconoscibile per l’evidente disagio che la persona timida prova già nel tentare a instaurare una relazione, caratterizzata spesso da comportamenti evitanti o marcati fortemente dall’ inibizione ansiogena.

Safwan Dahoul - Dream 93
Possiamo definire la timidezza da relazione come un disagio, di natura cognitiva, che si manifesta, con intensa  disregolazione emotiva e sintomi d’ansia sociale ansia, nel tentativo di vivere o di iniziare una stretta relazione interpersonale.

Chiaramente tale tipo di disagio appare più marcato riguardo le relazioni interpersonali a due, sia nell’intento di costruirle, sia in quello di tenerle in vita.

Essendo di natura cognitiva, la timidezza da relazione, attiene a cognizioni che fanno riferimento alle definizioni del sé e del sé-con gli altri. 


Si tratta, dunque, di credenze di base che riguardano, sostanzialmente, le idee di proprie capacità a far fronte agli eventi di natura sociale con efficacia, di abilità nelle relazioni interpersonali, o prerogative personali inerenti le idee di attraibilità e amabilità come persona, giustezza della propria idoneità fisica e mentale.

Nondimeno, a incidere su questa forma di timidezza, concorre il forte bisogno di certezza che è uno dei fattori che caratterizzano le ansie sociali.

Avrai già compreso che l’emozione principe dell’ansia da relazione è la paura.

Proprio perché questo tipo di timidezza attiene alle credenze di base cui accennavo poc’anzi, le paure vi fanno riferimento e, anzi, ne sono l’espressione emotiva.

Quindi si tratta della paura di fallire, di apparire negativamente, di non essere all’altezza, di non saper fare, di essere giudicato/a negativamente, di perdere la faccia, di non essere una persona sufficientemente interessante o attraente, di essere persona difettosa per nascita, di non meritare l’amore e/o l’attenzione altrui.

Dato che l’essere umano è un animale sociale molto più che in ogni altra specie, anche il bisogno di appartenenza gioca un ruolo fondamentale. Esse soddisfa i bisogni di accudimento e cura, quelli sessuali e agonistici, quelli di cooperazione, quelli affettivi.

Riuscire a costruire strette relazioni interpersonali (soprattutto quelle di coppia) significa soddisfare dei bisogni primari fondamentali per il proprio equilibrio psicofisico.

Ciò significa che è molto alto il valore conferito all’avere relazioni interpersonali soddisfacenti i propri bisogni di base, che tale valore assume importanza primaria nell’insieme degli scopi della persona.

Tutto ciò ha delle implicazioni. 

Alla generale paura di inadeguatezza e fallimento sottende la paura di una vita futura segnata dalla sofferenza, dall’isolamento, dalla solitudine.

Nondimeno, il tema dell’attaccamento può evocare anche percezioni negative dell’altro/a.

Entra in gioco, dunque, anche il problema della fiducia. 

Tuttavia, spesso, la mancanza di fiducia nell’altro/a corrisponde a una sfiducia in sé stessi. In quest’ultimi casi non si ha fiducia nell’altro/a perché si ritiene di non essere, essi stessi, meritevoli.

Nel vivere queste relazioni insofferenza o nel tentativo di costruirle, la mente è pervasa da fiumi di pensieri disfunzionali. 

Le attività rimuginative e ruminative sono, generalmente, intense e prolungate. 

In queste i pensieri automatici negativi la fanno da padrone, sia in termini di valutazione delle prerogative proprie e dell’altro, sia in termini di previsioni degli scenari di relazione, delle valutazioni altrui sulla propria persona, delle reazioni comportamentali dell’altro/a.

Questi attività rimuginative e ruminative vertono sempre sugli stessi temi e che fanno riferimento alle credenze disfunzionali di base sul sé e sul sé-con l’altro.

Ciò comporta che le valutazioni e le previsioni espletate dall’attività mentale tendono, in misura molto marcata, a escludere ipotesi interpretative dei fatti e previsione degli scenari futuri che prefigurano configurazioni positive o neutre. A dire il vero, escludono la gran parte delle possibili configurazioni. 

Il pensiero restringe il campo della osservazione a un ventaglio ipotetico assai, ma proprio assai ristretto.

Le conclusioni a cui giunge il pensiero hanno carattere emotivo a scapito dell’oggettività.
I comportamenti che ne derivano finiscono con il non essere funzionali al raggiungimento degli scopi.


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