1 giugno 2018



La timidezza è una forma di disagio sociale di natura cognitiva che si manifesta nell’interazione interpersonale e che è caratterizzata dal sentimento di paura principalmente rivolta alle conseguenze di un giudizio degli altri negativo.

Le cause della timidezza sono più d'una. A quella (o quelle) originarie vanno sommandosi altre nel corso del tempo, ciascuna generata da quelle precedenti. Si tenga conto che a ogni reazione a stimolo corrispondono delle conseguenze, quindi hanno delle implicazioni. Si tratta di processi che si auto alimentano e auto complicano perché le conseguenze sono, a loro volta, causa di altri problemi.

Alessio Serpetti -OLTRE GLI SPAZI ESISTENZIALI
Il fattore causale originario della timidezza è il sistema cognitivo riferito alle definizioni del sé, del sé-con gli altri e degli altri (anche intensi come insieme sociale).

In particolare tali definizioni sono modelli interpretativi e descrittivi della realtà, credenze incentrate sui temi della capacità a far fronte agli eventi con efficacia, abilità nel fronteggiare il mondo relazionale, amabilità e attraibilità come persona, sanità biologica.

Il problema sorge quando queste credenze piuttosto che essere interpretazioni della realtà oggettiva, sono descrizioni di un mondo ed esperienze vissute emotivamente.

In pratica, la percezione dell’esperienza vissuta, soprattutto nei primi anni di vita e in relazione al tipo di interazione avuta con le figure accudenti (caregiver), determina il modo con cui l’essere umano, prendendo coscienza del sé, gli conferisce sensi, significati, valori e caratteristiche.

Nel momento in cui, nel sistema cognitivo della persona timida, sono andate formandosi credenze negative sul sé o sul sé-con gli altri, ogni qual volta che si troverà a dover valutare una situazione da fronteggiare, partirà dal presupposto di essere inadeguata per quel tipo di esperienza. Ciò perché in memoria, quando il soggetto timido attinge informazioni su sé stesso, per valutare se ha le giuste prerogative, vi trova dati negativi.

Le prime conseguenze cominciano proprio a partire da questo punto. Valutandosi inadeguato, l’individuo timido è indotto a fare analisi previsionali riguardanti il proprio operato improntate all’insuccesso.

Ritenendo di andare incontro a un insuccesso le sue decisioni sono di due tipi, l’evitamento e la cosiddetta “fuga in avanti”. 

L’evitamento viene attuato con diverse strategie: evitare la situazione, l’estraniazione, l’appartarsi, fare scene mute nelle conversazioni, in pratica, l’attuazione di tutti quei comportamenti che impediscono la partecipazione all’evento temuto. 

La fuga in avanti è, invece, il tentativo di partecipazione all’evento ma che si consuma sotto il potente effetto dell’inibizione ansiogena; in questo caso, le facoltà sociali possedute, quelle fisiche, quelle mnemoniche e mentali subiscono uno smacco, vengono parzialmente o totalmente inibite. In questi casi, l’ansioso sociale va incontro all’insuccesso.

Qualunque sia la scelta strategica e comportamentale posta in essere, la persona timida si ritrova con un risultato finale comunque negativo. 

L’evitamento non permette di verificare la validità delle credenze e delle previsioni negative, non consente di vivere l’esperienza, non permette l’apprendimento di nuove abilità sociali, non consente di esercitare quelle abilità che già si possiedono: l’ansioso sociale finisce col vivere l’effetto delle sue rinunce, della non vita, come un fallimento. 

La fuga in avanti, concludendosi con un insuccesso viene altresì interpretata come un fallimento. 

In ambedue i casi, si convince ancor di più che il suo percepirsi inadeguato corrisponde a una triste verità: credenze e schemi cognitivi disfunzionali vengono confermati nella loro validità e ulteriormente rinforzati.

Giacché l’ansioso sociale misura gli insuccessi solo in funzione delle proprie prestazioni e comportamenti, valuta - come fattori causali - le personali presunte qualità negative suggeritegli dalle credenze di base disfunzionali sul sé e sul sé-con gli altri, anche perché queste non sono mai state messe in discussione. 

Queste interpretazioni sulle cause della propria sofferenza, lo allontanano ancora di più dall’individuazione dei processi reali che sottendono le interazioni disfunzionali.

Si è sempre più protratti verso un giudizio negativo sulla propria persona e all’auto colpevolizzazione con il risultato di un ulteriore abbassamento dell’autostima. Questa, a sua volta, favorisce il radicamento dell’abitudine all’evitamento e al ritiro sociale che divengono comportamenti automatizzati.
Chiaramente, maggiore è il ricorso al comportamento evitante e al ritiro sociale, maggiore è anche la forza e la pervasività dei pensieri negativi e delle paure.



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