2 dicembre 2019


La specie umana, più di altre specie animali, ha sviluppato una complessa socialità. Cosa che ha permesso al cervello di evolversi, in chiave sociale, con la formazione dei sistemi motivazionali sociali; oltre a quelle potenzialità che hanno permesso all’uomo di sviluppare il linguaggio verbale, la coscienza di ordine superiore e, dunque, l’identità esplicita.

Elena Vichi - serie la sete: il posto vuoto

Senza una dimensione interpersonale complessa, non sarebbero state possibili quei fattori evolutivi che differenziano la specie umana dalle altre.


Possiamo dire che la dimensione interpersonale è la chiave dello sviluppo umano.

Uno sviluppo che, per mezzo delle usanze, dei costumi, delle culture dominanti, della complessità dell’organizzazione sociale, ha finito per avere un suo rovescio della medaglia.

La timidezza sussiste solo nell’interazione con gli altri.

La persona timida fuori dai contesti sociali non soccombe alle influenze delle emozioni e delle proprie credenze disfunzionali ed è, dunque, libera di esprimere sé stessa.


Nella dimensione interpersonale, quando il soggetto timido si trova a essere coinvolto a rapportarsi agli altri, sia nella realtà della vita concreta, sia con le sue attività di pensiero, riferite alle situazioni sociali, si attivano, a seconda delle circostanze, i sistemi motivazionali che ineriscono alla socialità: il sistema dell’attaccamento, della cooperazione paritetica, il rango o competizione, quello sessuale quando implica anche quello della ricerca (approcci, corteggiamenti, rapporti di coppia).


La dimensione interpersonale costringe, la persona timida, a fare i conti con le proprie credenze disfunzionali, con i pensieri automatici negativi, con i personali schemi cognitivi.


Nel prepararsi a vivere, o ad affrontare, una situazione sociale, o il solo pensare a tali evenienze, la mente degli individui timidi fa ricorso, da subito, alla memoria.

Da quest’ultima attinge, in primo luogo, a quell’insieme di pensieri strutturali che costituiscono il sistema cognitivo di base: le credenze di base, quelle intermedie, le assunzioni automatizzate e abituali. In secondo luogo, attinge alla storia delle proprie esperienze sociali che la memoria ha fissato emotivamente.

Rapportarsi agli altri significa mettere in gioco sé stessi, pertanto, la persona timida cerca, nella propria memoria, tutte quelle informazioni circa le sue qualità a cui ricorrere per fronteggiare la situazione sociale con efficacia.


Gli obiettivi che si pone sono quelli di essere accettata nell’ambiente sociale cui ambisce di farvi parte, oltre che di esserne membro attivo.


Di conseguenza, gli scopi più immediati sono quelli di adottare comportamenti verbali o fisici, tali da imprimere, negli interlocutori una disposizione favorevole all’accoglienza e alla valorizzazione dell’altro come simile a sé nelle intenzioni e come proprio pari.


Per qualsiasi individuo umano, essere accolto significa appartenere a quel consesso di individui che hanno accettato il new entry, essere riconosciuto come pari, valorizzato, stimato, amato, sostenuto, essere parte integrante e attiva di quel gruppo.


Per una persona timida, ma anche per gli altri ansiosi sociali, tutto ciò è vissuta come impresa assai, assai ardua, se non quasi impossibile.


Ambisce alla socialità ma la timidezza gliela fa vivere con disagio. Il timore di essere oggetto di giudizi negativi, di far brutte figure, di essere respinta o di subire dei rifiuti, che si renda visibile la propria timidezza, di essere considerata inetta, incapace, sfigata, inappropriata, inadeguata, la induce, sotto l’influsso negativo delle credenze disfunzionali, dell’emozione della paura, dei pensieri automatici negativi, a comportamenti dimessi, impacciati, evitanti. Così tende al ritiro sociale, a rinunciare a quelle situazioni sociali che teme possano procurargli sofferenza e precipita nel dolore della non appartenenza.


La dimensione interpersonale è tutta sociale ed è in quest’ambito che si consuma la timidezza.



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