17 gennaio 2020


Le persone timide, come tutti gli ansiosi sociali, vivono le relazioni interpersonali con disagio in tutte o in alcune tipologie di interazione.

Il disagio può cominciare a essere vissuto sia dall’età scolare, sia a partire dall’adolescenza.

Nella timidezza, questi tempi precoci d’insorgenza fanno sì
Federica Gionfrida - loneliness 
che, già nei primi anni adolescenziali, le esperienze sociali che producono sofferenza emotiva si accumulano nella memoria in quantità significative, tanto da diventare riferimento abituale, automatico e standardizzato per tutte le valutazioni, le decisioni, le scelte e i comportamenti riguardanti le interazioni sociali del futuro (prossimo o lontano) e del presente.



La persona timida guarda l’intera storia personale delle relazioni interpersonali esclusivamente come insieme di esperienze di sofferenza da cui, quindi, sono escluse, potrei dire, a priori, quelle vissuto con soddisfazione.


A tale memoria autobiografica di sé con gli altri va ad aggiungersi la memoria delle cognizioni tacite (credenze di base) riguardanti la definizione e descrizione del sé (fondamentalmente, inerenti le qualità possedute), degli altri e del mondo.


Nel momento in cui, un individuo sta per approcciarsi (o pensa di farlo) a una situazione d’interazione sociale, la sua mente attinge informazioni dalla memoria delle esperienze trascorse e delle cognizioni tacite: fa ricorso alle conoscenze allo scopo di valutare le possibilità di fronteggiamento efficace di tale situazione che abbia esiti positivi di successo e non comporti conseguenze postume di sofferenza.


È bene specificare che, quando parlo di conoscenza, non conferisco a tale termine la valenza di verità oggettiva, ma di un insieme di dati acquisiti che possono essere sia validi, sia falsi, non corrispondenti alla realtà: è conoscenza soggettiva.


Nel caso di un soggetto timido le conoscenze a cui attinge sono un insieme di cognizioni formatesi su esperienze di sofferenza, di credenze di segno negativo sul sé, sul sé con gli altri, sugli altri e sul mondo inteso come consesso sociale.


La persona timida, in questo caso, elabora le sue valutazioni sulla base di soli dati di conoscenza carichi emotivamente di negatività.

Il risultato è un flusso di pensiero che prevede esiti e conseguenze postume negative. Si tratta di pensieri che conferiscono alla previsione un livello di probabilità prossima alla certezza ed emotivamente vissuta come tale, per cui l’insuccesso e la sofferenza presagite sono considerate immanenti, certe, inevitabili, incontrollabili, non sopportabili.


Con questo quadro valutativo l’individuo timido è indotto a scegliere di evitare l’esperienza la situazione oggetto delle sue elaborazioni mentali.


Quando non può evitarle, ricorre alla strategia “dell’assenza mentale” con l’estraniazione, la dissociazione dal momento presente, la scena muta nelle discussioni, la distrazione mentale, tutte percepibili anche per mezzo di atteggiamenti fisici come gli sguardi assenti, gli occhi che, in modo costante, non guardano in direzione degli interlocutori, la posizione del capo rivolto altrove.


L’altra forma di evitamento è il ritiro sociale che il soggetto può vivere in modalità radicale standosene richiuso in casa, o in modo “soft” preferendo anche luoghi aperti o pubblici ma restando per conto proprio, isolandosi dagli altri, appartandosi.


In sintesi, il comportamento evitante è la risposta ai processi di pensiero previsionale negativi nell’intento di evitare la sofferenza presagita e annullare lo stato d’ansia, d’angoscia e di paura che si avverte nel momento presente. È una risposta di difesa che, ovviamente, è tutta emotiva anche quando al soggetto appare come l’unica soluzione logica e razionale.





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