24 marzo 2020


Negli ansiosi sociali si avverte il bisogno di verificare, in modo automatico e quasi sempre inconscio, i propri stati emotivi, le cognizioni sul sé, le intenzionalità, disponibilità e valutazioni giudicanti altrui. 



Quella del controllo è una attività metacognitiva che, nelle ansie sociali, è pervasiva.


Il bisogno di controllo si diversifica a seconda degli scopi perseguiti e degli schemi cognitivi attivati: come validità e conferma delle cognizioni disfunzionali, come tema dell’accettazione, orientato al tema della competenza, quale attività positiva e necessaria, come attività negativa, verso il tema del fallimento del controllo.

Validità e conferma delle cognizioni disfunzionali. Verso sé stessa, la persona timida, vive una condizione, più o meno costante, di controllo del proprio comportamento, mentale e fisico, nell’interazione sociale. Percependosi inadeguata, in uno o più campi dell’agire e del vivere, cerca di cogliere le proprie incongruenze quasi alla ricerca di conferme al proprio sentire negativo, quasi mai verso le disconferme delle proprie credenze disfunzionali sul sé.


Nelle situazioni relazionali, nel momento in cui avverte il proprio disagio, l’individuo timido, osserva sé stesso “fallire” presagendo una continuità nell’insuccesso. È una condizione mentale, caratterizzata dal pensiero emotivo incentrato su una “istantanea” del momento presente, immediato, che non riesce a uscire dall’osservazione dello stato contingente senza, quindi, dirigere la propria attenzione verso soluzioni operative.


Il pensiero resta ancorato nella conferma delle proprie presunte incapacità, inabilità relazionali, senso di inferiorità, non amabilità. Le credenze di base, gli schemi cognitivi disfunzionali, si impongono nei suoi processi valutativi e previsionali.


Il risultato è che le sue attività di controllo si limitano alla conferma di quanto di negativo pensa di sé. Non è alla ricerca dell’errore o delle contingenze al fine di apprendere e intervenire in chiave di problem solving.


Prende atto del fallimento come status immutabile: è la persona nella sua interezza a essere fallita e, pertanto, tale condizione è considerata stabile nel tempo. 


Nel rapporto con le proprie esperienze interne, la persona timida, è mossa da una modalità giudicante indirizzata verso la conferma e, di conseguenza il rinforzo, delle credenze disfunzionali che la definiscono incapace, inabile, non amabile, difettosa. 


Ci sono anche casi in cui il bisogno di controllo è in funzione di credenze disfunzionali riguardanti l’idea dell’altro come inaffidabile e da controllare.


Il tema dell’accettazione. L’individuo timido che avverte il dolore della non appartenenza, che vive una decisa difficoltà di inclusione nei gruppi o categorie sociali verso cui aspira a farne parte, si attiva in un controllo continuo verso sé stesso e verso gli altri per sondare l’accettabilità della propria persona. Anche in questo caso è un processo di verifica della validità delle proprie credenze. Nonostante lo scopo finalistico sia quello di migliorare e/o attuare comportamenti funzionali all’accettazione sociale, tale attività si caratterizza come ricerca di conferma delle proprie cognizioni disfunzionali.


Il tema della competenza. L’individuo timido che si percepisce incompetente, incapace, inabile adotta forme di controllo finalizzate a verificare in termini qualitativi espressioni fisiche e verbali relative alle proprie performance e ai personali comportamenti nell’interazione sociale. Egli teme di rendere evidenti quelle inadeguatezze che considera prerogative negative costitutive del sé. 


Il controllo come attività positiva e necessaria. Così come accade verso rimuginìo e ruminazione, l’idea che l’attività di controllo sia positiva poggia sul convincimento che, in questo modo, si possa essere preparati per fronteggiare le situazioni che si temono e per individuare strategie adeguate. Il problema è che il tutto si risolve col comportamento evitante.

Un fattore che incide fortemente su questa visione è il bisogno di certezze assolute.


L’ansioso sociale è più interessato a evitare che possano verificarsi quegli eventi e conseguenze negative che il pensiero previsionale considera immanenti e certe: più che perseguire gli scopi desiderati si persegue l’antiscopo come strategia che ritiene offra maggiori sicurezze.


Il controllo come attività negativa. Accade sovente che l’ansioso sociale si rende conto di essere divenuto prigioniero di questa abitudine che non riesce a controllare.


I suoi tentativi di limitarla, condizionarla, lo riportano suo malgrado nell’attività metacognitiva che diviene più pervasiva. Essendo l’attività di monitoraggio un processo cognitivo abituale, strutturatosi da lungo tempo e che, pertanto, ha acquisito carattere automatico, trascende lo stato cosciente di ordine superiore che ne diventa subordinato, per cui la consapevolezza di esserne schiavo lo fa piombare in una dinamica metacognitiva di controllo, stavolta, incentrata proprio nella sua condizione di prigionia.


Il tema del fallimento del controllo. Per un ansioso sociale, il fallimento del controllo suffraga l’idea della propria incapacità a governare il rapporto con i propri stati interiori.

Il suo bisogno di certezze assolute è dissestato dall’incontrollabilità dell’azione di monitoraggio e controllo.

L’idea della necessità, obbligatorietà, del controllo categorico, completo, come strumento unico per raggiungere la certezza assoluta di evitare effetti negativi derivanti dall’interazione sociale e dal rapporto con le proprie esperienze interne è tra le metacredenze primarie della gran parte delle forme di ansia sociale.


Tutti questi aspetti dei processi cognitivi di controllo si oggettivizzano nei comportamenti e sono taciti, impliciti in buona parte dei pensieri.

Ciò significa che gli ansiosi sociali e, quindi anche i timidi, non hanno alcuna idea che nella loro mente si sviluppino queste dinamiche metacognitive. Anche quando avvertono il soggiacere ai loro flussi di pensiero, la loro idea valutativa si ferma alla semplice constatazione di non riuscire a smettere di pensare. Si tratta di dinamiche cognitive operanti fuori dalla coscienza di ordine superiore e, dunque, non hanno consapevolezza di origine e causalità.

  


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