14 aprile 2020


Nel momento in cui una emozione si esplicita in segni fisici, movimenti e posture osservati da terzi individui che ne ricevono una “impressione”, l’espressione emotiva diventa linguaggio. Il linguaggio non verbale è, dunque, espressione diretta degli stati emotivi.

Sulla scena della vita animata compare con le prime forme di organismi pluricellulari complessi del mondo animale. Lo ritroviamo persino nei rettili inferiori il cui cervello è composto dal tronco encefalico (detto anche cervello rettiliano). 

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Con l’evoluzione delle specie animali anche il cervello si espande e, con la comparsa dei mammiferi, vede la formazione dell’area limbica in cui le emozioni espandono il loro raggio di azione generando le due emozioni di base, il piacere e la sofferenza.


I rettili non provano né piacere, né sofferenza, uccelli e mammiferi sì. Anche il linguaggio non verbale muta e si evolve di pari passo con l’evoluzione dell’apparato cerebrale.


Chi di voi non ha visto gli animali mostrare il ventre in segno di resa, o assumere posture o assetti facciali minacciose se si sente minacciato?

Ebbene a ogni assetto corporeo corrispondono precise emozioni.

Anche nella nostra specie è così. Infatti, nell’uomo, la formazione della neocorteccia con le nuove funzioni e capacità non ha determinato la regressione o scomparsa delle funzioni proprie delle aree tronco encefaliche e limbiche, la neocorteccia con le sue prerogative si è semplicemente aggiunta e integrata.


Già da questa premessa, possiamo comprendere che quello non verbale è il linguaggio più antico e primario anche nell’uomo che ha sviluppato il linguaggio verbale solo con la crescita della complessità nelle forme sociali. Si ritiene che il linguaggio verbale si sia sviluppato tra i centomila e i diecimila anni fa, quindi, ben dopo la comparsa dell’homo sapiens!


Il linguaggio non verbale, essendo la manifestazione dell’emozione che si prova in quel momento, è in massima parte innata e, perciò, più genuino di quello verbale e, rispetto a quest’ultimo, è assi più difficile da simulare.

È per questo che capimmo subito che le lacrime della Fornero erano di coccodrillo, pura scena!


Tuttavia, ci sono forme di comunicazione non verbale che non sono espressione di modalità innate, ma che sono apprese attraverso l’interazione sociale sia come attori, sia come osservatori.


Questo è stato possibile per via dello sviluppo della socialità e delle culture che hanno spinto l’uomo alla ricerca di nuove forme espressive.


Oggi, allo stato attuale “la comunicazione non verbale costituisce un insieme di segni, riti, movimenti, costumi, tale da costituire un ventaglio molto esteso di elementi che trasmettono informazioni su ciò che si è in quanto individuo e in quanto soggetto sociale, su determinati costumi o culture di riferimento, sugli stati emotivi, sullo stile relazionale, sul ruolo o sulla condizione sociale”.
[1]

Si suol dire che l’abito non fa il monaco. Ciò è vero in termini culturali e concettuali, ma da un punto di vista percettivo, l’abito lo fa il monaco, eccome se lo fa!


Perché? Il linguaggio non verbale non è in grado di esprimere pensieri, congetture, principi; non è espressione del pensiero astratto, etico o morale. Come dicevo, è espressione emotiva. Manifestandosi solo attraverso la “forma”, noi possiamo interpretare solo ciò che vediamo.


La nostra mente collega ciò che vediamo a quanto la memoria associa a immagini di segni, riti, movimenti, costumi, a significati che abbiamo codificato e classificato.


Se per strada incontro un uomo vestito da monaco, non mi chiedo se sia davvero tale, penso automaticamente che sia un monaco.


Inoltre, dato che la sua gran parte è generato nelle sedi più profonde del cervello (area limbica e tronco encefalico), il linguaggio non verbale viene codificato dal cervello molto più velocemente di quello verbale che, invece, deve la sua invenzione allo sviluppo della neocorteccia.


Con l’invenzione del linguaggio verbale possiamo esprimere concetti, cognizioni, pensieri, intenzioni e volontà che assai difficilmente potremo esprimere con il linguaggio non verbale, anzi, in molti casi, non potremmo farlo affatto. Dove non giunge il non verbale, troviamo il verbale.


Il linguaggio verbale non sostituisce quello non verbale, le due forme di comunicazione sono cooperanti. Sono integrate a tal punto che i due linguaggi si esprimono simultaneamente. Ciò fa sì che se non c’è corrispondenza tra gli stati emotivi espressi verbalmente e quelli espressi fisicamente l’interlocutore coglie l’incongruenza e pone in dubbio l’autenticità di chi si sta esprimendo.


Ti è mai capitata questo tipo di esperienza? Di ascoltare le parole del tuo interlocutore ma di cogliere nella sua mimica facciale o nel tono di voce, o nella sua gestualità qualcosa che non quadrava?


Più specificatamente, il linguaggio non verbale riguarda la postura, la mimica facciale, la gestualità, il tono o il volume della voce, la posizione o il movimento degli arti o della testa, lo sguardo. Tutte cose che noi vediamo come segni, come forme. A questi segni e a queste forme associamo significati e sensi.

Questo processo di significazione è automatico in quanto il linguaggio non verbale, essendo a base emotiva, e diversamente da quello verbale che è ambivalente, è collegata alla conoscenza tacita,
[2] può accedere alla conoscenza esplicita e verbale solo in una fase successiva e solo se vi prestiamo attenzione cognitiva. La comunicazione non verbale è nel nostro DNA, così come la nostra capacità di codifica.

Ecco perché comunichiamo anche quando non ne abbiamo l’intenzione, perché qualunque cosa facciamo, non possiamo non comunicare.
[3]

Tuttavia, anche se non siamo in grado di domare le emozioni e le sue manifestazioni fisiche, siamo in grado di educarle
[4]. Questa capacità gestionale fa sì che abbiamo la capacità di mascherare le emozioni provando a mitigare le sue espressioni esterne.

Non a caso, molte persone sembrano non far trasparire emozioni, però non si può evitare di sentirle, dentro sé stessi. Da osservatori possiamo, però, cogliere in chi ci sta dinanzi, uno stato emotivo di fondo anche se abbiamo difficoltà nel delinearne la specificità.


Comunque sia, se vedo una persona non anziana con le spalle ripiegate in avanti, o che cammina rivolgendo lo sguardo a terra, d’istinto mi vien da pensare che sia timida o che abbia qualche altro tipo di sofferenza interiore. Se vedo una persona arrossire, non posso non pensare che avverta vergogna. Se noto che una persona fa scena muta in un ristretto gruppo di persone che discutono mi vien da pensare che sia timida o che abbia problemi di comunicazione.

Come dicevo, gli stati emotivi non si possono nascondere, il loro corpo parla per loro anche se preferirebbero che ciò non accadesse.




Note:
1 Luigi Zizzari, “Imparare a esprimersi, manuale di comunicazione” ed. addio timidezza 2018
2 Vittorio Guidano, “La complessità del sé” Bollati Boringhieri 1988 
3 Watzlawick P., Beavin J., Jackson D. D., “Pragmatica Della Comunicazione Umana” Ed. Astrolabio 1971
4 Antonio Damasio, “Emozione e coscienza” Adelphi 2000


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