Le persone timide non osservano in modo oggettivo sé stessi.
Quando meditano sul proprio carattere, sui propri comportamenti, nel loro di relazionarsi agli altri, lo fanno sull’onda emotiva di percepirsi.
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Vincenzo Di Martino - Il cacciatore di se stesso |
A loro, i propri pensieri di valutazione del sé, appaiono razionali, li considerano come il risultato di un pensare realistico. Valutano la propria storia esperienziale sulla base degli insuccessi vissuti, delle difficoltà nell’interagire con gli altri, dei problemi di inserimento sociale. L’analisi che svolgono su sé stessi guarda ai risultati, agli effetti che il relazionamento produce. In pratica osservano i risultati finali e da questi ne traggono conclusioni.
I timidi, quando cercano le cause, le ragioni della propria condizione, finiscono col pensare di essere degli incapaci nel fronteggiare le situazioni, inabili nel relazionamento sociale, di non suscitare interesse negli altri, di essere sbagliati o difettosi per nascita, in certi casi, non amabili come persona, oppure addirittura inferiori agli altri. Altri puntano la loro osservazione sul proprio corpo, sulle fattezze fisiche.
Perché succede tutto questo?
Alla radice, nel livello inconscio, ci sono le credenze di base o quelle derivate dalle prime, le credenze secondarie. Le cause delle loro difficoltà fanno riferimento a queste cognizioni strutturali. Si giunge alla deduzione di essere inadeguati perché tali conclusioni sono coerenti col sistema cognitivo del sé che li definisce in tal modo.
Si tratta di un sistema cognitivo che si è formato, in gran parte, durante l’infanzia e l’adolescenza sulla base delle esperienze di relazione avute soprattutto con i caregiver (gli accudenti, principalmente i genitori) e sono state memorizzate attraverso le emozioni provate.
In pratica, è un sistema cognitivo che si è costituito sulle emozioni vissute.
Se questo rapporto con i caregiver è un continuum di modi costanti e ripetitivi di relazionamento, le cognizioni non subiscono invalidazioni e le riscritture della memoria confermano la loro validità di partenza. Le cognizioni strutturali si irrigidiscono e l’ansioso sociale le porta con sé anche in età adulta.
La persona timida adulta si ritrova con un sistema cognitivo sul sé tanto rigide che non ha potuto modificare attraverso le capacità di elaborazione astratta critica che si acquisisce sul finire dell’adolescenza.
Allo stato cosciente si rende anche conto dell’irrazionalità del proprio percepirsi. Purtroppo conscio e inconscio operano su livelli differenti. Mentre il primo è capace di analisi critica complessa, il secondo è un processo automatico che memorizza solo dati emotivi che non hanno accesso alle funzioni cerebrali superiori di elaborazione.
Il risultato è che il suo pensare razionale subisce il pesante e determinante condizionamento delle emozioni: il pensiero diventa emotivo perché i processi di valutazione logica si poggiano su dati di conoscenza emotiva e non oggettiva.
Per fare un paragone banale, ma che rende l’idea, è come se un matematico a cui è stato insegnato che 2 più 2 fa 5, giunge nei suoi calcoli sempre a risultati errati, non perché non sia capace di ragionare razionalmente e logicamente, ma perché i suoi calcoli si basano sul dato sbagliato che la somma di 2 più 2 è 5.
I dati di definizione del sé memorizzati nella mente della persona timida sono di carattere emotivo e, pertanto, non riflettono la realtà oggettiva.
Maggiore è il carico emotivo elicitato, maggiore è il discostamento dalla realtà.
In definitiva, quando l’ansioso sociale pensa su sé stesso, si pone come osservatore emotivo senza che il suo sistema cognitivo inconscio riesca a cogliere la realtà causale della propria personale condizione.
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