8 settembre 2020


Prima di essa c’era la sola comunicazione non verbale, cioè quella delle movenze, delle posture, della gesticolazione, delle espressioni facciali. Cose che abbiamo in comune con le altre specie animali. Tuttavia, nell’homo sapiens, c’è anche l’uso delle dita per indicare l’oggetto che si vuol porre all’attenzione degli altri. 

Luigi Zizzari - Comunicanti
La comunicazione non verbale nasce con le prime forme di coscienza che, anche se non razionale, danno comunque il senso di sé come soggetto distinto dagli altri e a riconoscere l’intenzionalità altrui proprio attraverso questa forma di comunicazione “fisica”.

Nell’uomo, con la formazione della neocorteccia e, grazie anche alla maggiore complessità della socialità, si sviluppa la coscienza di ordine superiore che permette la nascita del linguaggio verbale.

Alcuni ritengono che la comunicazione verbale si sia sviluppata all’incirca diecimila anni fa, forse, anche alcune migliaia di anni prima, ma questa è cosa difficile da appurare.

Con la comunicazione verbale, l’uomo ha la possibilità, di descrivere le proprie emozioni, di esplicitare le proprie intenzionalità, comunicare conoscenze, accelerare i processi di apprendimento e poi a trasmettere conoscenze in forma scritta: cose che non sono possibili con la comunicazione non verbale.

Sebbene, anche questa giovane forma di comunicazione sia soggetta a errate interpretazioni e fraintendimenti, è molto più puntuale della più antica comunicazione non verbale.

Se dovessi utilizzare una parola chiave per indicare il perché ciò sia stato possibile, userei la parola “complessità”.

In effetti, l’accresciuto livello di complessità della socialità sviluppatesi nella specie umana, ha spinto il processo evolutivo dell’homo sapiens a cercare nuove e più performanti forme di comunicazione, in quanto il livello non verbale non era più in grado di soddisfare esigenze e necessità che si profilavano con le prime forme aggregative e organizzate dell’uomo.

Il linguaggio verbale assorbe, senza sostituirsi a essi, anche quei tratti distintivi del comportamento animale (e dell’uomo primitivo) che sono espressione dei sistemi motivazionali sociali e che, in precedenza, si manifestavano solo attraverso il linguaggio non verbale.

Ciò significa che il linguaggio verbale non è solo comunicazione di conoscenze, pensieri, intenzioni ed emozioni, ma assume anche carattere di relazione.

È proprio nel carattere di relazione che possiamo riconoscere l’espressione dei sistemi motivazionali sociali: la competizione, il rango sociale, la pariteticità, la cooperazione, l’affiliazione.

E non solo. A esempio, il sistema dell’attaccamento (e accudimento), quello sessuale e della ricerca si manifestano anche attraverso l’uso del linguaggio verbale.

Attraverso il modo e lo stile con cui comunichiamo, affermiamo i nostri intenti di rango, di apertura o chiusura verso l’altro, la disponibilità (o meno) a una relazione paritetica e/o cooperativa, le aspirazioni di affiliazione.

A esempio, se dico “dammi quel bicchiere” indico non solo l’intenzione di avere quel bicchiere ma genero anche un modo gerarchico nel rapportarmi nei confronti dell’altro, dò un ordine. Ma se dico “mi dai quel bicchiere?”, mi pongo in una relazione paritetica o cooperativa.

Se proferisco un secco “no” a una richiesta o proposta, indico una mia chiusura o rifiuto di affiliazione o di cooperazione. Al contrario, se invece del “no”, dico, “ci vorrei pensare su”, o “vediamo se è possibile”, lascio aperta una finestra: cambia il senso dell’intenzionalità.

In pratica, con il linguaggio verbale posso determinare o indicare il tipo di relazione che intendo instaurare.

Ma in che modo, il linguaggio verbale può avere a che fare con la timidezza?

Il linguaggio verbale, come anche la comunicazione non verbale, ha due o tre attori: colui che proferisce, colui che per comprendere il senso e il significato di ciò che gli viene comunicato deve “decodificare” il messaggio; lo spettatore.

I silenzi di una persona timida, nelle conversazioni, non offrono modi verbali per comprendere le sue intenzionalità se non ricorrendo alla codifica del più antico linguaggio non verbale che si poggia sul solo comportamento ma che pone un serio problema di corretta interpretazione. 

Una voce sommessa o tremolante, così come il non saper dire “no”, pone l’altro in un rapporto gerarchico superiore.

Un fattore importante, nella comunicazione verbale, è l’ascolto attivo, cioè ascoltare con attenzione e disponibilità alla comprensione di ciò che l’interlocutore intende esprimere.

Interrompere una persona che si sta esprimendo è un atteggiamento di non ascolto. Ascoltare fino in fondo l’interlocutore significa anche inviargli un messaggio di apertura, è come dirgli: “Ti ascolto perché ho rispetto per la tua persona, perché mi interessa conoscere il tuo pensiero e lo voglio comprendere appieno”.

Nella comunicazione verbale c’è un aspetto su cui bisogna prestare attenzione: la complementarietà.

La complementarietà si basa sulla differenza dei contenuti. Esprimere contenuti differenti non significa avere, necessariamente, idee diverse. Spesso, in una discussione su un determinato tema, i partecipanti esprimono il proprio pensiero affrontando la questione in oggetto, analizzando la problematica secondo un determinato aspetto, un “angolo di lettura”.

Apparentemente, questa differenza di contenuti, può sembrare un dissenso, una diversità concettuale antagonista al nostro pensiero personale, ma nella realtà, questa differenza è solo uno dei tanti aspetti di uno stesso tema. È la complementarietà.


In altre parole, più aspetti possono concorrere a delineare i tratti complessivi di un tema che ha una pluralità di sfaccettature.

Il problema della complementarietà nel confronto verbale è che viene spesso confusa con la diversità o contrapposizione di vedute.

Ovviamente c’è anche la diversità concettuale, ideologica, ecc., ma questa è un’altra storia.



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