Il sistema motivazionale dell’attaccamento quando è vissuto in modo doloroso e reiterato nel tempo, già in età precoce (neo natalità, infanzia, fanciullezza), produce un apparato cognitivo di base disfunzionale incentrato su rappresentazioni, definizioni e descrizioni del sé, del sé con gli altri e degli altri in termini negativi.
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Giulio Massari - Emarginazione |
Nell’infanzia, anche la separazione, più o meno prolungata, dalla figura di riferimento entra nel novero di queste casistiche.
Genitori disattenti, distratti da condizioni mentali interiori di sofferenza, presenti e/o attenti a sprazzi all’infante, dalle espressioni facciali inespressive, violenti, lamentosi, isterici, alcolizzati, tossicodipendenti, trasmettono al neonato, al bimbo, emozioni negative.
Emozioni che vanno a costituire i primi elementi di conoscenza che faranno l’ossatura portante del primo apparato di base che la mente dell’infante costruisce nella rappresentazione di sé e dell’altro.
I processi emotivi sono la struttura con cui il sistema cerebrale si istruisce e costruisce l’idea di sé.
In queste fasi iniziali della vita le aree della neocorteccia deputate alla logica, al pensiero astratto, sono tabula rasa. Tutti i processi cognitivi sono gestiti attraverso le emozioni che l’infante percepisce e prova, il rapporto con le figure di riferimento (la madre, in primo luogo).
L’assenza, la separazione, le distanze, la mancata risposta alle istanze del bimbo riguardo il bisogno di attenzione, cura, difesa, conforto, rassicurazione, generano emozioni di sofferenza. Sono queste emozioni a essere memorizzate come rappresentazione delle esperienze d’interazione bimbo – caregiver.
Esperienze che vengono tradotte, in termini cognitivi, come espressione di un sé non amabile, non meritevole di attenzione e amore, che non suscita nell’altro (e, per trasposizione, negli altri) interesse.
Ne scaturisce il dolore della non appartenenza, la mancanza avvertita di affettività che si trasforma in carenza affettiva che il bimbo, una volta divenuto adulto, porterà con sé, dentro di sé in modo pervasivo, pernicioso.
Ecco. La paura dell’abbandono è paura della perdita di una affettività che è divenuto il tema preponderante della vita interiore della persona timida.
L’abbandono, la perdita di affettività, rafforzano quelle cognizioni di inamabilità che caratterizzano le cognizioni di base già formate, si radicalizzano ulteriormente, irrigidendosi nella loro ridotta permeabilità alle reiscrizioni continue della memoria.
L’abbandono funziona, quindi, come conferma della propria inadeguatezza percepita, sentita e temuta.
Ho già scritto, in altre occasioni, che ogni la paura più avvertita dalla mente ha sempre altre paure sottostanti.
Timori che puoi cogliere se ti fermi un attimo a pensare chiedendoti: perché ho paura dell’abbandono? Forse perché resti sola/o? E poi? Forse la solitudine non sai come gestirla positivamente? Forse perché non ti consideri capace di vivere in tale condizione?
In altri articoli ho scritto di come alla base delle varie coniugazioni delle emozioni ci sono gli “impulsi” del piacere e della sofferenza (o dolore); le emozioni primigenie.
Ciò implica che la paura dell’abbandono è paura della sofferenza.
Il dolore è percepito come una condizione non sopportabile, qualcosa verso cui ci si sente impotenti, qualcosa che ci fa piombare nella disperazione, nel precipizio.
In questo girotondo di esperienze di sofferenza la memoria autobiografica dell’ansioso sociale riscrive questa storia amplificandone la portata dell’intensità provata nel dolore.
Una persona, che qui chiamerò Crizia, mi disse: “non voglio rapporti affettivi perché non voglio più provare la sofferenza della fine del rapporto”. Così, Crizia ha scelto di far di tutto per non innamorarsi più, per non provare più le emozioni dell’amore. Non vive più storie d’amore e oppone un netto rifiuto a chiunque le propone una relazione affettiva.
Purtroppo le emozioni non sono eliminabili, le proviamo a prescindere perché sono processi cerebrali automatici che nulla hanno a che fare con la ragione e le capacità di gestirle.
Così, l’evitamento della sofferenza le procura una sofferenza ben più subdola che è il sottofondo emotivo che l’accompagna in ogni istante della sua vita, le sterilizza la mente, le crea un vuoto affettivo: proprio quell’affettività che il sistema motivazionale dell’attaccamento reclama a gran voce e che, non vedendosi soddisfatta, genera l’emozione primigenia della sofferenza e, a seguire, il dolore della non appartenenza, della solitudine. Si crea un crogiuolo di emozioni di sofferenza.
È vivere questo?
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