L’accettazione può essere riferita a sé, agli altri o a entrambi gli ambiti. Quest’ultima è sicuramente la più diffusa.
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Elena Vichi - la sete - serie |
L’accettazione riferita a sé, va intesa come prendere atto di ciò che si è, senza che ci sia giudizio e/o valutazione di presunte o reali inadeguatezze sulla propria persona. Implica un atteggiamento mentale costruttivo e propositivo nei confronti di sé, e volto al problem solving.
Quando è riferita agli altri, l’accettazione si configura come appartenenza sociale attiva che comporta il riconoscimento, da parte del gruppo o dell’unione di persone in vari ambiti, del singolo individuo come membro effettivo e valorizzato.
Nelle ansie sociali e quindi, anche nella timidezza, queste due dimensioni dell’accettazione si intrecciano fino a costituire, nella mente dell’ansioso sociale, un quadro cognitivo di base confuso e in cui questi fattori si influenzano reciprocamente.
L’accettazione di sé diventa un problema nella misura in cui il soggetto timido è oberato da pensieri negativi e giudicanti, riguardanti la percezione della propria persona.
In questi casi, la mente della persona timida, fa riferimento alle credenze di base riferite soprattutto alla definizione di sé che la descrivono come individuo inadeguato; alla propria storia esperienziale degli insuccessi (mai di quelle positive).
Sono di segno negativo sia i pensieri automatici negativi di giudizio e valutazione di sé, sia quelli previsionali che presagiscono fallimenti e sofferenze.
Meditando sul proprio vissuto di sofferenza e insuccesso, sulle cognizioni disfunzionali di sé, le persone timide si giudicano negativamente e giungono alla conclusione che sono esse stesse, nell’interezza della propria persona, a determinare la personale triste condizione.
Il giudizio di sé è, generalmente, impietoso, non compassionevole, estremamente severo, persino cattivo e sfocia nel rifiuto di sé, giungendo anche all’odio verso la propria persona. “Faccio schifo”; “sono del tutto insignificante”; “sono senza valore”; “mi odio”; “sono irrecuperabile”; “mi faccio pena”; “sono da buttar via”; “non merito nulla”; “non mi posso accettare”: questi sono alcuni tipi di giudizio su sé stesse.
Quando il problema dell’accettazione è riferito agli altri, il dolore della non appartenenza primeggia.
La persona timida si sente isolata, esclusa, ignorata, giudicata negativamente dagli altri, non desiderata, come se fosse un elemento di disturbo.
Avverte la sua difficoltà di interagire. “Cosa c’è di sbagliato in me?” si chiede. In altri momenti, la sua mente accede alle proprie credenze di base che si riferiscono alle definizioni del sé, del sé con gli altri e degli altri.
“Sono inferiore a loro”; “sono una persona fallita”; “stanno pensando che sono un/una sfigato/a”; “sono incapace di relazionarmi”; “gli altri pensano solo a sé stessi”; “il modo degli uomini è inospitale”; “non so che fare o che dire”; “loro parlano di cose che non m’interessano”; “non ci so fare”; “loro mi ignorano”; “per loro è come se non esistessi”; “nessuno mi chiama o mi invita”. Sono alcuni tipi di pensieri che transitano nella sua mente.
Il problema dell’accettazione sociale investe direttamente i sistemi motivazionali dell’attaccamento e della socialità.
L’essere umano, per tutta la sua vita, avverte il bisogno di cura, attenzione, affetto, conforto, che sono prerogative proprie derivanti dal sistema motivazionale dell’accudimento. Avverte anche il bisogno dell’accettazione che è propria dei sistemi motivazionali sociali che determinano l’esigenza dell’appartenenza.
Il mancato soddisfacimento di questi bisogni produce sofferenza che si manifesta nelle varie declinazioni emotive e, allo stesso tempo, genera un flusso di pensieri giudicanti che confermano e rinforzano le personali credenze di base.
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