8 novembre 2021


Mindfulness significa meditazione consapevole. È una strategia psicoterapeutica che mira a modificare il rapporto tra l’individuo e le proprie esperienze interiori, quali i pensieri invasivi, le emozioni, l’ansia, gli stati di stress percepiti.

donna spia dalla finestra - Johann Georg Meyer

È anche considerata come modello operativo complementare delle pratiche psicoterapeutiche mirate a rendere funzionali quei comportamenti e quei pensieri che sono alla base di disturbi emotivi.

La mindfulness rappresenta il punto d’incontro sia delle esperienze funzionali di determinate pratiche della cultura buddista, sia delle formulazioni dei sistemi cognitivi e comportamentali provenienti dalla psicologia.

Essa è finalizzata, da una parte, alla pratica della concentrazione; e dall’altra, a suscitare, nella mente, uno stato di consapevolezza e comprensione della natura della realtà così com’è, nella sua oggettività.

La tecnica della mindfulness, quindi, punta a prestare attenzione, in modo intenzionale, alla nostra esperienza del momento così com’è, evitando di interpretarla come crediamo o desideriamo che sia, cioè in funzione dei condizionamenti mentali.

La mindfulness, essendo “osservazione” dell’esperienza del momento presente, privata di ogni forma di giudizio e di valutazione, si pone con un atteggiamento di accettazione dell’esperienza stessa, per come si configura; per cui, durante la meditazione, tutti quei fenomeni cognitivi che si presentano nella nostra mente  come percezioni, cognizioni, emozioni, sensazioni, immagini, pensieri, sono osservati con attenzione senza mai essere valutati in termini di vero o falso, importante o futile, buono o cattivo, benefico o dannoso, brutto o bello.

Inoltre, si apprende anche a non sviluppare un attaccamento disfunzionale al piacere, o una repulsione insostenibile verso la spiacevolezza; fattori, questi, che favoriscono il permanere degli stati di sofferenza.

In breve la mindfulness è un esercizio di osservazione, non giudicante, del flusso degli stimoli provenienti dall’esterno o dall’interno nel momento presente.

In questo tipo di approccio alle problematiche interiori, si punta a ridurre il ricorso all’evitamento e ad aumentare il repertorio comportamentale. Il tutto attraverso una logica di accettazione non giudicante. 

Nella psicoterapia cognitivo comportamentale, il ricorso alla mindfulness, si pone l’obiettivo di riuscire ad ottenere un processo di distanziamento critico dagli schemi cognitivi disfunzionali, mediante le tecniche di consapevolezza e accettazione.

L’esercizio della meditazione consapevole, aiuta a considerare i propri pensieri, come eventi temporanei dai significati relativi, anziché come rappresentazione esatta della realtà oggettiva o del proprio sé.

Giacché la meditazione è una tecnica finalizzata all’approfondimento dell’attenzione e all’acquisizione di una lucida consapevolezza, le persone stressate e quelle ansiose, possono apprendere a osservare pensieri, sensazioni, emozioni ed eventi, in modo oggettivo. Non solo; si apprende a farlo senza reagire a tali stimoli, acquisendo, così, una maggiore capacità di introspezione e accettazione delle esperienze e la comprensione che tali eventi hanno carattere transitorio e impersonale.

Approcciarsi alle pratiche della mindfulness significa essere disponibili a prendere di petto sofferenza, confusione, emozioni, sentimenti e pensieri negativi continuando a osservare per un periodo di tempo prolungato il momento presente e al di là del pensiero.

Il nostro ruolo, in queste forme meditative, e quello dell’osservatore, dell’esploratore, di colui che è intento a cogliere, con lucidità e attenzione, ciò che si presenta nel nostro campo percettivo, fisico e mentale. Noi siamo, in quei momenti, gli scopritori genuini dell’esperienza.

L’osservatore, però, non ha il compito di giudicare. Egli si muove nel campo della descrizione. L’assenza del giudizio è di fondamentale importanza se vogliamo evitare di cadere nelle trappole mentali dell’emotività che ci riconsegnerebbe prigionieri dei pensieri negativi.




Luigi Zizzari



28 ottobre 2021


“Mi faccio schifo”; “c’è tutto di sbagliato in me”; “sono una frana, non merito niente”.

Elena Vichi - profondità

Un ansioso sociale sopraffatto da credenze negative sul sé, vive le sue giornate nel segno di insuccessi relazionali concepiti come colpe; non riesce a interagire con gli altri e fa la conta dei suoi innumerevoli difetti; guarda la sua diversità come segno dimostrativo dell’essere una macchina vivente sbagliata o difettosa per natura.

La persona timida che vive questi moti negativi di pensiero emotivo sul sé, tende anche a concepire la propria esistenza come colpa, come indecenza, come ignominia. Tutto ciò che di negativo accade è ricondotta a causali che riguardano la negatività della propria persona.

Giudizi e valutazioni, nella mente di questi ansiosi sociali, escludono le contingenze temporali e situazionali, l’esistenza della casualità, gli incidenti di percorso che pure capitano a chiunque, tutti i fattori emotivi che incidono sul proprio comportamento.

Si verifica un processo mentale che generalizza senza distinzione, che riconduce tutto alla propria persona nella sua globalità.

“Sono una persona fallita perché sbagliata”, questo potrebbe essere uno dei leitmotiv di chi non riesce ad accettare sé stesso.

Il pensiero emotivo non permette di cogliere dinamiche cognitive ed emotive e fattori causali che vanno a costituire un insieme articolato e connesso che sta dietro ai comportamenti disfunzionali delle persone ansiose.

In altre parole, non permette di cogliere l’aspetto composito di un insieme di elementi che andrebbero distinti tra loro per funzione, caratteristica, origine.

Eppure tali elementi sono tasselli modificabili, gestibili, in qualche caso, persino eliminabili.

Il giudizio negativo di sé, una volta dispiegato, impedisce ogni logica risolutiva, il ricorso al problem solving, l’oggettivazione delle esperienze, la separazione tra pensiero, emozione e fatti.

Portando a conclusioni generalizzanti, il giudizio negativo di sé, esclude la complessità, la varietà, i dettagli che costituiscono l’insieme dell'esperienza.

In tali condizioni l’ansioso sociale è schiacciato da una visione dicotomica: o sono ok, oppure non sono ok.

Dominato da cognizioni disfunzionali e negative sul sé, l’individuo che si giudica negativamente sulla base degli insuccessi sociali, sfocia nella non accettazione della propria persona.

La non accettazione di sé produce gli stessi effetti, ma amplificati, del giudizio negativo di sé.

Non accettarsi significa rifiutare il presente e rigettare il passato di modo che non esiste un punto di inizio da cui partire, in altre parole, non sono rintracciabili elementi di valutazione oggettiva su cui costruire un percorso di cambiamento.

L’accettazione di sé non va inteso come un atto di resa, di rassegnazione, bensì, è la presa d’atto di una condizione oggettiva sulla quale non vanno espresse giudizi di valore, valutazioni etiche o morali.

Ciò che si è ora, è solo un dato di fatto che scaturisce da una pluralità di fattori interconnessi scomponibili, analizzabili e da comprendere, e che possono dar vita a progetti di cambiamento.

Accettarsi significa volersi del bene, tenere a cuore la propria vita e la propria esistenza, uscire dal mondo del giudizio ed entrare in quello della comprensione.

L’accettazione di sé è il punto di partenza.

Solo con l’abbandono del giudizio negativo di sé e dal rinnegare la propria persona è possibile aprire la mente a modi nuovi di concepire e vedere sé stessi, entrare in una modalità oggettiva del pensare, individuare i reali fattori causali della propria condizione, trovare soluzioni.




21 ottobre 2021


Ci sono modelli di pensiero inadeguati sia per la valutazione degli eventi e delle situazioni, sia per la scelta dei comportamenti da avere. Ellis li chiama “miti”.

I miti possono formarsi per mezzo di cognizioni strutturali disfunzionali e/o tramite apprendimento.

In ambedue i casi si tratta dei processi cognitivi che si sviluppano a partire dalle tenere età.

Thomas Lerooy - Il peso del pensiero - scultura

In relazione alle cognizioni strutturali disfunzionali, i miti costituiscono la costruzione di pensieri che siano funzionali alle cognizioni strutturali da cui derivano. Questi, pertanto, sono modelli di pensiero che traducono in forma logica (apparentemente), più o meno articolata, il contenuto delle cognizioni di base.

In tema di apprendimento, i miti si acquisiscono tramite le attività educative familiari per la maggior parte dei casi e nei processi formativi in conseguenza delle relazioni sociali.

Proprio perché possono formarsi nel mondo delle interazioni sociali (familiari o esterni alla famiglia), questi modelli di pensiero sono riscontrabili nei tessuti culturali delle popolazioni soprattutto, ma non solo, se caratterizzati da livelli bassi di istruzione o da ridotti ventagli di conoscenza. Proprio la loro forte presenza nei tessuti sociali, nel comune sentire popolare, rende i miti difficili da sradicare.

L’aspetto fondamentale della struttura di un mito è l’essere caratterizzato da una forma morale o ideale, quindi, da una regola culturale cui deve obbedire ogni comportamento.

Strettamente correlate a queste sono il senso dell’obbligo comportamentale e l’apparire sociale.

I miti sono molto ben radicati nella mente del soggetto il quale, non li considera “miti” ma regole del buon senso, della ragionevolezza, della logicità.

Un ansioso sociale difficilmente è consapevole, o almeno cosciente, delle origini e dei reali effetti causali che sottendono ai propri miti.

Oltre ad avere una forma morale o ideale, i miti possono svolgere una funzione inibitoria.

Il mito del vero amico


È da considerare sicuramente un mito dell’obbligo. Coloro che fanno riferimento a questo modo di pensare ripongono aspettative esagerate nei confronti degli altri o dell’altro.

Essi ritengono che l’amico/a sia in grado e debba comprendere quanto nell’altro non è riscontrabile visivamente e che debba persino anticiparne gli stati emotivi. Tale convinzione pone l’ansioso sociale nel ritenere che l’amico/a debba, come obbligo morale o etico, operare in modo funzionale alle attese riposte in tali persone.

Una persona timida che crede in questo mito è chiaramente pervasa da attività mentali incentrate su sé stessa e, pertanto, sfugge alla propria attenzione ogni considerazione relativa a bisogni, esigenze e stile di vita dell’altro/a.

Il mito della modestia


La modestia esprime una alterazione, in negativo, del concetto di umiltà. Se l’umiltà rappresenta l’essere cosciente della propria relatività nel contesto sociale multiculturale, dei limiti delle proprie capacità, potenzialità e possibilità, di una generale assenza di certezze assolute, la modestia è espressione di una logica svalutante del proprio valore individuale, giunge anche a rinnegare o nascondere il valore soggettivo.

Per un ansioso sociale che assume culturalmente tale mito, la modestia è considerata una virtù, una qualità, persino un obbligo morale.

Chi crede in questo mito considera l’esprimere propri pensieri ed opinioni, da una parte, come una attività di esaltazione ed elogio irragionevole dell’ego, dall’altra, come una esposizione al rischio di un giudizio negativo altrui. Ritenendosi, in qualche modo, inadeguata, la persona timida avverte un senso di inferiorità per cui il mondo delle opinioni e della libera espressione, appare come un terreno minato.

L’assunzione del mito della modestia è indicativa di processi attentivi indirizzati verso le presunte debolezze, fragilità o incapacità della propria personalità. Da tal punto di vista, questo modo di pensare funziona come conferma e rinforzo delle credenze disfunzionali che si hanno del sé.

I soggetti che assumono il mito della modestia hanno, tendenzialmente, difficoltà nell’accettazione dei complimenti, nel parlare di sé positivamente se non attraverso la dichiarazione della propria modestia.

L’attribuzione di valore morale al mito della modestia è configurabile come comportamento mentale in risposta all’importanza riposta nei giudizi degli altri. Le persone che credono in questo mito sono soggiogate da ciò che gli altri possono pensare della loro persona e dei propri comportamenti.

La tendenza alla svalutazione della persona, delle potenzialità e dei mezzi propri disponibili non è sostenuta da valutazioni oggettive del sé.

Il mito dell’obbligo


È un mito tipico riscontrabile nelle persone che vivono il problema di essere e sentirsi socialmente accettate. È spesso anche espressione dei comportamenti passivi.

L’ansioso sociale che crede in questo mito evita la richiesta di aiuto e piaceri considerando tali comportamenti come inopportuni, forma di ingiusta obbligazione verso gli altri, forieri di fastidio. Per un altro verso ritiene che non vanno rifiutati favori o servigi a persone da cui si desidera l’accettazione e a cui, dunque, si vuol piacere.

Il mito dell’ansia


Questo mito è riferito all’idea che la manifestazione dell’emozione della paura, dell’ansia sia espressione di debolezza. Chiaramente, le persone soggiogate da questo mito aspirano a un sé ideale caratterizzato da grande autosufficienza e di avere piena padronanza di sé. Hanno la paura, o addirittura il terrore, che possa apparire evidente il proprio stato d’ansia.




6 ottobre 2021


Situazione mentale 1. Flussi di pensieri vagabondi affollano la mente. A cosa pensi? “A niente”; ma quel “niente” è, più che altro, e pensare senza meta, senza un tema preciso, un divagare.

Situazione mentale 2. Immagini vaganti che transitano nella mente come uno scorrere di diapositive o di video compilation: ricordi flashes di eventi, dei gesti, di espressioni facciali.

edward hopper - automat

Situazione mentale 3. Estraniazione dal contesto presente come assenza inconsapevole, leggibile come distrazione, star tra le nuvole: una persona ben conosciuta potrebbe anche passarti davanti a pochi centimetri di distanza e tu potresti non accorgertene.

Situazione mentale 4. Stai male, non sai come raccontare il tuo malessere, anche volendo non sapresti neanche da dove cominciare, in questa difficoltà a raccontarti finisci con il non parlare.

Situazione mentale 5. Non sei abituata/o a raccontare di te, non lo fai mai; è che proprio non ci riesci, non ti viene di farlo anche se talvolta pensi che dovresti.

Situazione mentale 6. Ti capita di pensare che dovresti parlare anche un po’ di te, ma poi pensi che risulteresti noioso/a, oppure che qualcuno potrebbe pensare male di te, oppure che non ci si può fidare degli altri.

Di queste condizioni mentali, per una persona chiusa in sé stessa, ve ne possono essere anche altre; spesso anche concomitanti. A te capita?

Un ansioso sociale, una persona timida tutta racchiusa in sé vive una condizione di isolamento mentale, di solitudine della mente. Esternamente appare come una persona distratta, dallo sguardo vuoto, con una espressione facciale persa o triste, con la mente tra le nuvole.

L’essere chiusi in sé stessi è l’espressione di una condizione di solitudine relazionale e psicologica, il possibile sintomo di una di quelle forme di disagio che annoveriamo nella categoria delle ansie sociali. A lungo andare si trasforma in ritiro sociale.

Ci si chiude in sé stessi perché non si è avvezzi o esercitati al dialogo verbale, perché non ci si sa esprimere, perché non ci si sa raccontare, per paura del giudizio negativo altrui, per il timore di non essere accettati, per l’idea di non essere all’altezza e di non avere le giuste capacità o abilità.

Ci si chiude in sé stessi anche per abitudine, tanto da farlo col motore automatico, perché lo si è sempre fatto e, oramai, è la normalità della propria vita.

Quasi tutte le persone chiuse in sé stesse vorrebbero non esserlo ma il cambiamento appare come qualcosa di improbabile, una chimera, impossibile.

Il proprio futuro appare come uguale al presente che è ripetizione del passato, una condizione di prigionia a vita: non c’è via d’uscita.

Questa condizione mentale e psicologica favorisce il permanere di un quadro cognitivo con credenze disfunzionali, lo rafforza, lo radicalizza; favorisce il perseverare dei flussi di pensieri previsionali negativi e, di conseguenza, la scelta dei comportamenti evitanti.

La paura degli altri si fa strada, talvolta, in maniera subdola, inconscia. Spesso, questo tipo di timore si accompagna, in parallelo, alla paura di sé stessi per quelle presunte credenze sul sé incentrate sull’idea di inadeguatezza e, dunque, alla paura di arrecare danno alla propria persona.




27 settembre 2021


Il nostro cervello tende sempre a economizzare e, spesso, crea delle vere e proprie routine, sia a livello di pensiero, sia nei comportamenti. In questo modo molte delle nostre attività vengono svolte senza che vi sia bisogno di una attività di pensiero cosciente.

Walter Molino - Vita nel 2022

Queste routine cerebrali, non attinenti ai sistemi automatici dell’organismo biologico, si formano per effetto di una continuata reiterazione di tipi di pensiero o di comportamenti; diventano, nel tempo, abitudini che acquisiscono carattere automatico.

Nella nostra vita quotidiana ci capita spesso di eseguire comportamenti automatici o di avere pensieri automatici. Abbiamo anche creato un tipico modo di dire per descrivere questi atti, “ho messo il pilota automatico” o “sono andato col pilota automatico”.

In altri termini, quando adottiamo un comportamento abitudinario per molto tempo, questo diventa automatico.

L’abitudinarietà e l’automaticità di determinati comportamenti vanno anche a definire quello che viene chiamato “carattere”.

Infatti, il carattere di una persona è l’insieme dei comportamenti abituali acquisiti.

Benché il “pilota automatico” sia uno strumento della nostra attività cerebrale con lo scopo di ridurre il proprio carico di lavoro nel livello cosciente, ha anche il rovescio della medaglia: non esiste un processo di selezione tra comportamenti funzionali e disfunzionali.

Nelle ansie sociali il comportamento è fortemente influenzato dagli schemi cognitivi, dalle emozioni, dalla ansia e dal pensiero emotivo.

Ciò implica che un comportamento ansioso e disfunzionale continuamente reiterato nel tempo diventa, esso stesso, abituale e automatico.

Quante volte, a posteriori, ti sei reso/a conto di aver avuto, in una determinata situazione, un comportamento irrazionale ma che hai già ripetuto in altre precedenti esperienze?

“Faccio sempre la stessa stronzata”, “alla fine mi comporto sempre allo stesso modo”, “non faccio che commettere sempre lo stesso errore”.

La persona timida tende ad avere comportamenti finalizzati a interrompere i flussi di paura e di ansia propri del circolo vizioso della timidezza e delle altre ansie sociali. Questi comportamenti hanno sempre lo scopo di evitare quelle esperienze che, nei pensieri previsionali, presagiscono sofferenza emotiva e/o sociale.

Quindi pone in atto il comportamento evitante (fuga, distanziamento, ritiro sociale, scena muta, estraniazione, evitamento dell’esperienza) o ansioso.

Poiché gli stati ansiosi, le emozioni e i flussi di pensiero negativo fanno parte della quotidianità della persona ansiosa, tutti questi comportamenti sono posti in essere con assoluta continuità, cioè sono ripetuti innumerevoli volte. Questa reiterazione li rende automatici.

L’automaticità del comportamento evitante, o comunque ansioso, fa sì che possa non esserci consapevolezza immediata di ciò che si sta facendo in quel preciso istante. In alcuni casi, tuttavia, la coscienza di attuare un comportamento disfunzionale c’è ma non è comunque sufficiente per azioni alternative in quanto emozioni e ansia prendono il sopravvento a danno dei processi razionali.

L’attuazione di un comportamento evitante produce la cessazione dello stato d’ansia e dell’emozione della paura in quanto non c’è più il rischio del pericolo previsto. Questo è un uno dei fattori che rendono abituali e, quindi, automatici i comportamenti evitanti.

L’ansioso sociale è sotto il fuoco incrociato dei processi automatici (comportamentali e di pensiero), dei sistemi cognitivi disfunzionali del sé, degli stati emotivi e ansiosi.




21 settembre 2021


Il comportamento, nei contesti sociali, assume anche la caratteristica di essere una forma di comunicazione.

È ben più antica del linguaggio verbale, oltre che nell’uomo, è rintracciabile in tutto il mondo animale.

Dorota Górecka - foto

Attraverso il comportamento gli esseri viventi sono in grado di intuire l’intenzionalità degli altri e trasmettere quella propria.


Questa forma di comunicazione, nel mondo animale e umano, è particolarmente evidente nel corteggiamento e nella lotta per il rango già prima dello scontro fisico. Le legioni romane battevano le loro armi sullo scudo per apparire più forti e intimorire i nemici.

Tuttavia, il comportamento non esprime, necessariamente, le reali intenzioni di un individuo. Buona parte del nostro comportamento si configura come comunicazione involontaria o inconsapevole.

In effetti, la funzione naturale del comportamento è di adattamento all’ambiente finalizzato a garantire le migliori condizioni di vita.

Nelle ansie sociali, il comportamento, inteso come forma di comunicazione, è particolarmente influente nelle relazioni interpersonali.

Nelle relazioni interpersonali, il comportamento, inteso come forma di comunicazione, può fare la differenza tra la riuscita o l’insuccesso nei rapporti relazionali e, di conseguenza, nella qualità della vita sociale.

Un comportamento è funzionale quando permette di raggiungere gli obiettivi perseguiti.

Ciò significa che non sempre un comportamento sorretto da un’idea di giustezza, dalla ragione etica, sia di per sé funzionale: nessuno si sogna di sfidare fisicamente un colosso muscoloso per il fatto di avere ragione!

Un’altra implicazione del concetto di comportamento funzionale è che, come mezzo di comunicazione, sia capace di essere interpretato dagli altri secondo quelle che sono le proprie intenzioni desiderate.

Come ho più volte scritto, non è possibile non comunicare.

Qualsiasi nostro comportamento comunica, all’esterno, qualcosa di noi, che lo si voglia oppure no.

Nelle ansie sociali, questa intrinseca natura comunicativa del comportamento costituisce un vero e proprio problema.

Gli umani non sono dei, perciò, non hanno il potere di leggere nel pensiero altrui.

Noi possiamo solo interpretare, dare un senso e un significato ai comportamenti che vediamo e alle parole che ascoltiamo.

Tuttavia non si tratta di un processo elaborativo della mente capace di offrire la certezza della giusta interpretazione.

Infatti, noi interpretiamo gli eventi e gli oggetti della comunicazione in funzione della nostra personale storia esperienziale, emotiva e culturale; del nostro modo soggettivo di pensare; del nostro stato emotivo del momento per cui, per quest’ultimo aspetto, un comportamento A di oggi posso interpretarlo nel modo X, ma lo stesso comportamento A domani potrei interpretarlo nel modo Y.

Ciò nonostante, molti comportamenti assumono significato universale. Ciò accade quando un comportamento rientra nella casistica della nostra conoscenza implicita (conoscenza innata).

Un comportamento passivo ci induce a pensare alla persona in questione come a un soggetto relazionalmente debole, o privo di personalità, o con evidenti problemi di socialità.

Un comportamento evitante, poniamo in chiave di corteggiamento, può farci pensare a quella persona come a un individuo poco interessato, o senza “carattere”, oppure problematico.

Un comportamento troppo riservato, magari sulla difensiva o che mantiene le distanze, ci trasmette l’idea di una persona chiusa in sé stessa, oppure diffidente e che non ripone fiducia nella nostra persona, oppure addirittura asociale nel senso di non essere interessata agli altri.

Nelle ansie sociali il comportamento è condizionato dall’insieme dei pensieri strutturali di base, di quelli derivati, dall’insorgere dell’ansia, dall’emozione della paura.

Va anche detto che, negli ansiosi sociali, molti di questi comportamenti condizionati hanno carattere abitudinario e, quindi, sono attuati in modo automatico.

Un comportamento condizionato da schemi cognitivi disfunzionali diventa anch’esso, a sua volta, disfunzionale.

Un comportamento disfunzionale rende difficile, se non impossibile, l’instaurazione di rapporti interpersonali soddisfacenti.

Inoltre, gli altri che entrano in relazione soggetto ansioso sono indotti a incomprensioni e alla formazione dell’idea riguardante la persona ansiosa falsata dalla difficoltà interpretativa del suo comportamento.

In altre parole, il distanziamento e l’allontanamento dalla persona timida non è, necessariamente, da addebitare agli altri, ma al comportamento disfunzionale del soggetto ansioso.

Purtroppo, difficilmente la persona timida ha la consapevolezza di assumere comportamenti non funzionali alla socialità e, in questi casi, tende a conferire, agli altri, colpe che non hanno.







18 settembre 2021


Il problema principale degli ansiosi sociali è costituito dalla difficoltà a relazionarsi con gli altri. Le conseguenze si misurano nelle poche e nulle amicizie, nell’assenza di una vita sessuale, nella problematicità a costruire rapporti di coppia, nelle difficoltà a rapportarsi nei luoghi di lavoro, nelle scene mute durante le discussioni, nel non riuscire a iniziare o mantenere una conversazione.

Goa - Acqua amara

I fattori causali di tale problema risiedono, sostanzialmente, negli assetti cognitivi di base riguardanti il sé, il sé con gli altri, gli altri; nel mancato apprendimento, o mancato esercizio, di modelli relazionali.

In particolare, il mancato apprendimento o esercizio dei modelli relazionali è, spesso, conseguenza delle cognizioni disfunzionali di base.

I fattori causali innescano una serie di processi emotivi e comportamentali che complicano, ulteriormente, la vita relazionale della persona timida.

Tra i processi emotivi principali non possiamo che annoverare l’emozione della paura e l’innesco dell’inibizione ansiogena.

Nel momento in cui una persona timida si rapporta o avverte l’intenzione di rapportarsi agli altri, si ritrova con la mente è pervasa da un flusso di pensieri automatici negativi che, il più delle volte, sfuggono alla sua attenzione cosciente e consapevole.

In un tale quadro mentale, la storia esperienziale del soggetto svolge un ruolo che inasprisce la negatività espressa dai flussi di pensiero.

È chiaro, che in una storia fatta di una somma di esperienze vissute negativamente e memorizzate come esperienze emotive di sofferenza costituiscono un insieme di elementi che, nelle elaborazioni mentali di valutazione, esprimono la forza, la potenza accorrente della capacità condizionante del sistema strutturale delle cognizioni.

Le delusioni amicali e/o di coppia, il fallimento nelle relazioni interpersonali, partecipano alla conferma e al rinforzo delle cognizioni disfunzionali di base o derivate.

Con un sistema cognitivo di segno negativo i comportamenti non possono che essere disfunzionali. Il ritiro sociale, le scene mute, gli evitamenti, le fughe, ne sono l’espressione più evidente.

Essendo l’aspetto esterno della condizione interiore, il comportamento e le mimiche facciali sono ciò che appare, in tutta la sua evidenza, agli occhi degli altri.

D’altra parte, l’essere umano, non avendo la capacità di leggere nel pensiero altrui, può costruire una propria idea dell’altro solo su ciò che appare.

Quest’ultima osservazione è la ragione principale per la quale i comportamenti delle persone timide si trasformano in fattori di allontanamento e di crisi nei rapporti interpersonali.

Nei casi in cui un ansioso sociale ha maturato cognizioni strutturali che conducono alla mancanza di fiducia negli altri, all’idea dell’altro come vipera, traditore, bugiardo, falso, i suoi comportamenti non possono che riflettere all’esterno un tale apparato cognitivo ed essere, quindi, anche percepiti dagli altri con immaginabili conseguenze.

Un tale sistema cognitivo può comportare anche la formazione di una distorsione cognitiva come quella del mito dell’amico che implica l’idea che l’altro debba sempre e comunque mostrarsi disponibile e persino avere la capacità inumana di intercettare i pensieri che fluttuano nella mente del soggetto ansioso.

La persona timida, vivendo una condizione di sofferenza interiore, si trova costantemente sotto gli influssi negativi del non soddisfacimento del sistema motivazionale dell’attaccamento.

Per questa ragione il bisogno di vicinanza, conforto, solidarietà, complicità, acquisiscono una rilevanza molto potente che spinge il soggetto timido a riporre attese eccessive nel comportamento altrui. Il problema è che anche gli altri hanno una propria vita e propri bisogni.

Fattore che, purtroppo, sfugge alla valutazione dell’individuo timido troppo preso da un’eccessiva focalizzazione su sé stesso.

Con un sistema cognitivo incentrato sull’idea di una propria inadeguatezza, la persona timida vive gli insuccessi relazionali come colpa o come vittima di un fato contrario. Condizione mentale che la conduce a un giudizio negativo di sé o a considerarsi come persona sfigata.



3 settembre 2021


Nel 1967, Watzlawick, Beavin, e Jackson affermarono un concetto che resta basilare per la comprensione sia della comunicazione sia della percezione dell’altro: l’impossibilità di evitare di comunicare sia in qualsiasi cosa si faccia, sia che non si faccia alcunché. 

Escher - relatività

Gli esseri viventi esprimono istintivamente i propri stati emotivi attraverso espressioni facciali, movimenti del corpo, posture, espressioni vocali, eccetera. Nell’uomo, anche per mezzo del tono o il volume della voce, la verbalità.

Tutte queste espressioni istintive sono correlate a significati che fanno parte della nostra conoscenza implicita, cioè di un sapere innato che ereditiamo in quanto parte del patrimonio, in gran parte genetico, della specie.

Ciò significa che ogni nostro comportamento fisico o verbale è interpretato dagli altri attraverso i significati che essi esprimono per mezzo della conoscenza implicita.

Non è un caso che quando incrociamo una persona ne riceviamo una “impressione” riguardo suo stato emotivo e il suo modo inconscio di disporsi nei nostri confronti.

Nell’uomo, alle interpretazioni innate dei comportamenti fisici e verbali, si aggiungono quelli appresi per trasmissione culturale. Fatto che rende ancora più complesso e articolato il mondo della comunicazione.

Il modo con cui percepiamo l’altro/a è una diretta conseguenza della nostra conoscenza implicita, di quella esplicita, della nostra personale storia esperienziale.

Va considerato che il linguaggio verbale, sebbene abbia ampliato notevolmente le nostre possibilità espressive e descrittive, presenta una complessità dovuta al fatto che obbedisce a significati condivisi per convenzione sociale.

Il problema è che queste convenzioni sui significati vanno appresi attraverso l’apprendimento di modelli espressivi. La mancanza o il mancato esercizio di tali apprendimenti produce dei seri problemi.

Anche il linguaggio non verbale, nel corso dell’evoluzione umana e della crescente complessità della socialità, si è arricchito di nuovi segni comportamentali. Anche questi si apprendono per mezzo dell’interazione sociale. Molti comportamenti appresi sono propri di un popolo, una etnia, addirittura di singoli gruppi.

La percezione dell’altro/a e l’interpretazione dei comportamenti fisici e verbali è in funzione di tutti questi aspetti ma anche del nostro stato emotivo del momento, delle situazioni contingenti.

Hai mai sentito l’espressione “Si capisce ciò che si vuol capire?”. Ecco questa descrive puntualmente cosa intendo quando parlo di interpretazione o percezione dell’altro/a attraverso lo stato emotivo in cui si trova la mente al momento della comunicazione.

A chiarimento di ciò si sappia che, a esempio, il volere avere per forza ragione su una questione è uno stato emotivo; spesso, anche interpretare personalizzando una frase o un comportamento come gesto di attacco verso la propria persona è uno stato emotivo.

Dato che non possiamo non comunicare e che, quindi, indipendentemente dalle nostre reali intenzioni, qualsiasi nostro comportamento o espressione verbale, comunica agli altri sensi e significati su chi siamo e come ci rapportiamo agli altri, la percezione che l’altro ha di noi è soggettiva.

Diverse persone con ansia sociale si sentono dire frasi del tipo: “non ti valorizzi”. Una frase del genere ci dice di come l’altro ci percepisce guardando i nostri comportamenti, il nostro modo di vestire, di curare il corpo. Ci dice anche che i suoi modelli comportamentali, l’insieme dei segni e dei significati appresi lo inducono a percepirci come una persona che ha poca cura di sé.

D’altra parte, ciascuno di noi percepisce i comportamenti fisici e verbali degli altri in un determinato modo. Se incroci un individuo per strada, anche tu ti fai un’idea di che tipo di persona sia quella che hai appena incrociato. Pensaci.




Approfondisci e apprendi a comunicare con





19 agosto 2021


Molti ansiosi sociali lamentano il problema di non saper procedere, sia in modo verbale, sia in modo comportamentale, in situazioni in cui si ha come obiettivo finale costruire un rapporto di coppia o avere un rapporto sessuale.

Buona parte di queste difficoltà sono legate al corteggiamento.

Paul Delvaux - l' incontro

Il problema non è solo cosa fare o dire, ma anche come interpretare il comportamento, fisico o verbale, della persona con cui si intende interagire.

Il corteggiamento è un insieme di comportamenti che, nella specie umana, si è particolarmente evoluto e articolato tanto da impegnare anche il pensiero astratto.

Ciò implica anche la formazione di processi e apprendimenti culturali che si sviluppano attraverso l’esperienza dell’interazione sociale.

Tuttavia, non va ignorato il fatto che il corteggiamento è una attività che possiamo registrare anche nei mammiferi e negli uccelli e cioè, in tutte quelle forme di vita animale il cui cervello si è evoluto fino a sviluppare l’area limbica o anche sotto corticale.

Questa precisazione è utile per comprendere come il corteggiamento sia, innanzitutto, una attività di origine genetica regolata dai sistemi operativi interni quale quello della sessualità finalizzato non solo alla riproduzione della specie ma anche alla formazione della coppia.

Il corteggiamento è, dunque, una attività dell’istinto che nell’uomo ha acquisito anche forme culturali complesse.

Se è vero che l’uomo è dotato di una coscienza estesa e del lume della ragione, è anche vero che resta un essere appartenente al mondo animale e che la gran parte delle sue attività comportamentali e mentali sono ancora dominate dalle funzioni neurali dell’apparato animale che è in lui.

Solo la neocorteccia (lo strato superficiale del cervello con uno spessore di solo 3 mm!) ci rende umani, ma il resto del cervello è come quello di un qualsiasi altro mammifero.

Piaccia o no, la cultura prodotta dall’uomo non è tale da sovvertire la natura animale della nostra specie. È così allo stato attuale dell’evoluzione della specie umana.

Tuttavia, la mente umana nel momento stesso in cui concettualizza le emozioni e le esperienze, di creare nozioni cognitive sul sé, sugli altri e sul mondo, è in grado di condizionare quei processi automatici che si manifestano nelle emozioni che inducono i comportamenti.

Si tratta, però, di condizionamenti che non vanno a inficiare la natura e le funzioni automatiche dei sistemi operativi interni.
Tali condizionamenti riguardano, fondamentalmente, la psicologia cognitiva dell’individuo.

Le forme espressive umane del corteggiamento si apprendono nell’interazione sociale attraverso le esperienze dirette o indirette.

Una delle implicazioni di quest’ultimo aspetto è che il mancato apprendimento del linguaggio del corteggiamento comporta serie difficoltà sia nel corteggiare, sia nella comprensione dell’altro/a coinvolto/a in tale attività.

La persona che non ha avuto modo di apprendere i modelli comportamentali e verbali del corteggiamento si trova nella condizione simile a quella di trovarsi in un contesto in cui si parla una lingua sconosciuta.

“Cosa devo fare?”; “Non so che dire”; “non so come comportarmi”; “non riesco a comprendere le sue battute e i suoi modi di fare”.

Frasi tipiche di questa difficoltà nel districarsi in un corteggiamento che richiede la conoscenza di modelli comportamentali e verbali correlati a tali attività.

Queste stesse frasi possono esprimere, però, anche l’attivazione dell’inibizione ansiogena.

È qui entrano in gioco le cognizioni strutturali sul sé, sul sé con gli altri e sugli altri.

Una persona che ha credenze sul sé come soggetto in qualche modo inadeguato, nel momento in cui tende ad approcciarsi all’altro/a oggetto del suo interesse, è pervasa da emozioni di paura.

I suoi pensieri automatici previsionali sono orientati alla negatività, all’idea del fallimento, di subire un rifiuto, di essere allontanati, di essere oggetto di scherni, di essere giudicati negativamente, di non essere in grado di una buona performance o prestazione, di non essere sufficientemente attraente.

L’insieme di questi pensieri negativi e previsionali assorbono una gran parte delle energie mentali e psichiche, tali da ridurre drasticamente quelle necessarie a una modalità di problem solving.

Si tratta di una negatività del pensiero mentale che innesca l’inibizione ansiogena per cui il soggetto si blocca sulla sola esistenza del problema senza che la mente riesca a procedere oltre.




7 luglio 2021


Nelle ansie sociali, la ruminazione è un processo mentale per il quale si è impegnati, in modo quasi ossessivo, nel ricordo di una esperienza, con una attività di valutazione e, al tempo stesso, di rammarico e sofferenza verso l’evento o la situazione che è stata vissuta.

Antony Williams - Margaret at ninety

L’attività del ruminare di una persona timida è caratterizzata da un lungo arco temporale che può durare da alcune ore a diversi giorni. L’individuo non riesce a smettere di ruminare.

Nei casi in cui se ne rende conto il soggetto è preso dalla ansia di voler interrompere quest’attività metacognitiva, ma più si sforza di farlo, più resta prigioniero della ruminazione.

La ruminazione, nelle persone timide, è orientata alla rivisitazione delle esperienze vissute con sofferenza.

Le esperienze vissute, soprattutto negli ansiosi sociali, sono memorizzate in associazione con le emozioni di dolore provate.

A loro volta, queste “celle” di memoria sono associate ad analoghe esperienze vissute che hanno prodotto analoghe emozioni di sofferenza.

Ciò significa che quando il soggetto timido va a rivisitare una specifica esperienza negativa, le valutazioni attengono all’insieme delle memorie della storia esperienziale che riguardano vissuti analoghi.

Con l’accumularsi delle esperienze negative la memoria di esse viene sistematicamente riscritta e la sofferenza è ricordata con una intensità superiore a quelle effettivamente provate.

Il ricordo della sofferenza acquisisce una valenza di intensità crescente nel corso del tempo.

Così, nella ruminazione, il ricordo del dolore tende ad essere vissuto come profonda sofferenza, talvolta, tale da essere considerata non sopportabile e a indurre la paura verso la possibilità di riviverlo in nuove esperienze.

Il processo meta cognitivo della ruminazione favorisce questa dinamica. Accade perché da una parte funziona come rinforzo e conferma del sistema di credenze disfunzionali, per altra parte perpetua l’abitudine alla ruminazione prolungata nel tempo, per altro verso alimenta quel sistema di memorizzazione dell’esperienza in termini di grande sofferenza.

Vale la pena prendere in esame anche il fatto che nella ruminazione è contenuta anche l’abitudine al giudizio negativo del sé, del sé con gli altri o degli altri.

Da questo puntò di vista, il ricordo del dolore e degli insuccessi vissuti forniscono, alla persona timida, ulteriori motivi di collegare tali memorie a presunte personali inadeguatezze.

In tal senso, l’ansioso sociale, avverte anche un senso di colpa di sé per ciò che è stata la propria vita socialmente ed emotivamente disfunzionale. Si tratta di un senso di colpa che esclude contesti e contingenze, è considerata una colpa esclusiva di sé verso cui non c’è appello.

Un altro aspetto della ruminazione e del contestuale ricordo del dolore è l’attivazione di emozioni di sofferenza analoghe a quelle provate nelle esperienze oggetto dell’attività ruminante.

Tuttavia, l’intensità delle emozioni attivate, non sono necessariamente equivalenti a quelli vissute nell’esperienza rammentata. In questi casi l’emozione può presentarsi come sottofondo, o con intensità comunque inferiore a quella realmente vissuta oppure, in altri casi, scatenare una condizione emotiva ad altissima intensità.

Nelle ansie sociali, la memoria del dolore è una caratteristica intrinseca dell’attività metacognitiva della ruminazione. Spesso è lo stesso ricordo del dolore a dar vita all’attività ruminante. Possiamo dire che ruminazione e memoria del dolore siano costituenti di un processo circolare.



3 luglio 2021


Uno dei fattori psicologicamente più invalidanti è la tendenza della persona timida e, in generale, negli ansiosi sociali, è quell’insieme di pensieri negativi rivolti al giudizio negativo di sé stessi e delle proprie qualità.

“Mi faccio schifo”; “sono una persona fallita”; “sono incapace di amare”; “non servo a niente”; “sono un incapace”; “non farò mai nulla di buono nella mia vita”.

Hopper Edward - Donna al sole

Queste, e tanti altri tipi di frasi, sono l’espressione di un giudizio senz’appello nei confronti della propria persona.

Certo, ci sono casi in cui il soggetto timido scarica sugli altri le cause o le colpe della propria condizione. Ma nella maggior parte degli individui timidi, si vive un senso di colpevolezza della propria condizione, ma soprattutto, si tende a individuare le cause della propria sofferenza interiore puntando l’indice verso questa o quella peculiarità apparente di sé.

Dato che la persona diventa timida per via di cognizioni inconsce negative su sé, l’indice puntato è indirizzato proprio verso quelle credenze di base disfunzionali che riguardano sé stessi, sé stessi con gli altri e gli altri.

Senza rendersene conto, la persona timida, indirizza le sue valutazioni negative sul sé guardando ciò che, in realtà, è solo evidenza apparente. I comportamenti disfunzionali non sono causati da inadeguatezze proprie, ma da strutture cognitive inconsce che hanno cominciato a formarsi in tenera età.

L’ansioso sociale che prova giudicare o valutare la propria persona, in tale operazione, è coinvolto emotivamente. Le sue valutazioni non possono che essere il frutto di pensieri emotivi, mai di pensieri oggettivi.

Ecco, dunque, che l’accettazione di sé assume una valenza prioritaria.

Accettarsi non significa arrendersi o rassegnarsi alla propria condizione. L’accettazione è la presa d’atto di una condizione oggettiva su cui non vanno ricercate colpe o colpevoli.

Accettarsi significa dirsi “ok, adesso son fatto così, ora come posso cambiare le cose?”.

Accettarsi significa non esprimere alcun tipo di giudizio o valutazione sulla propria persona. L’accettazione è orientata al problem solving.

L’accettazione di sé è il distacco dalla tendenza mentale di associare valori negativi a ogni evento della propria vita sociale e di ciò che ne deriva. Questo permette alla persona di riconciliarsi con la realtà al di là delle proprie spinte emotive, di approcciarsi alle esperienze con spirito libero. Il mondo reale è ciò che è, nella sua oggettività, scevro di condizionamenti emotivi.

Liberandosi da un atteggiamento mentale giudicante, l’accettazione ci permette di guardare dentro noi stessi come osservatori neutri, come se ci si guardasse dall’esterno.

Ciò permette di valutare comportamenti e conseguenze in maniera contestuale, inserendoli nell’ambito situazionale in cui si manifestano: anziché piangersi addosso, odiarsi o respingersi, ci si spinge verso la ricerca di soluzioni.

Ma non è tutto qui. L’accettazione di sé è il più importante atto d’amore verso la propria persona. Senza questo gesto d’amore verso di sé non è possibile una soluzione per la timidezza.

Una cosa, però, deve essere chiaro: l’accettazione non è qualcosa che bisogna attendere che giunga, non è una cosa che va conquistata, e nemmeno meritata, va fatto, punto e basta.




18 giugno 2021


Comincio subito col dire che la timidezza non è innata. 

Si determina in funzione del sistema delle cognizioni che va formandosi nel corso della vita già a partire dalla nascita.

Elena Vichi - darkness freedom

Infatti, già il neonato, comincia a costruire il proprio insieme di cognizioni in base a come i caregiver (l’accudente) si rapportano all’infante rispondendo alle sue richieste di accudimento, conforto, rassicurazione, attenzione ecc.

Le cognizioni così come si formano possono essere modificate, aggiornate, sostituite, ma anche rafforzate e radicalizzate.

Il problema della timidezza sta proprio nel rinforzo delle cognizioni disfunzionali che, nel tempo, se non vengono modificate, si radicalizzano producendo pensieri negativi sul sé, sul sé con gli altri, e sugli altri.

Sono questi pensieri negativi a indurre livelli di ansia e paure che si concretizzano con comportamenti e modi del pensare disfunzionali. Da questi processi mentali ed emotivi si attiva la timidezza.

Altra cosa importante è che la timidezza è sempre e soltanto relativa alla vita sociale: al di fuori della socialità la timidezza non esiste.

I comportamenti e i modi del pensare indotti dalla timidezza, una volta divenuti abituali, vanno a costituire il carattere della persona timida.

In altri termini, il carattere di un individuo è l’insieme dei comportamenti abituali e dei modi abituali del pensare a sé e agli altri.

Gestire la timidezza significa imparare a modificare le proprie cognizioni sul sé e sugli altri e a modificare e creare nuove abitudini comportamentali. Ciò non significa rinnegare sé stessi o la propria personalità e cultura.

Un processo di modificazione delle cognizioni e dei comportamenti disfunzionali non è semplice, né è una attività a breve termine.

Possono occorrere mesi o anni a seconda della radicalizzazione delle cognizioni disfunzionali. Inoltre i comportamenti abituali sono modificabili solo con la continua pratica di nuovi modi che devono essere sistematicamente ripetuti se si vuole che diventino nuove abitudini.

I tempi lunghi richiesti per il mutamento costituiscono uno dei problemi principali che la persona timida deve affrontare. 

Ma cosa comporta l’opera di cambiamento per superare la timidezza?
Tale processo implica:

Le credenze di base e quelle intermedie sono inconsce, pertanto, bisogna adottare specifiche tecniche per individuarle.

Inoltre, proprio la loro collocazione inconscia fa sì che esse abbiano una forte base emotiva e siano assai poco razionali. La loro modificazione richiede tempi lunghi anche perché occorre contrastare l’abitudine a pensare emotivamente.

Bisogna anche imparare a individuare e riconoscere i pensieri automatici che si presentano in varie forme (immagini mentali, paure, sensazioni, ecc.) e transitano tanto rapidamente nella mente che difficilmente si ha coscienza o memoria di averli avuti.

Va tenuto in conto il fatto che le persone timide, nel loro tentativo di capirci qualcosa e spiegarsi il perché della propria timidezza, costruiscono 
sistematicamente spiegazioni errate ma le considerano logiche, razionali.

Questo accade perché il sistema cognitivo, soprattutto quando si è radicalizzato, difende sempre sé stesso da ogni tentativo di modificazione e induce l’individuo a spiegazioni fuorvianti per allontanarlo dall’individuazione dei fattori causali reali.

Il soggetto timido nel meditare su sé o su sé con gli altri adotta sempre il pensiero emotivo, mai, e dico proprio mai, quello oggettivo.

La complessità dei processi mentali, per agire sulle cognizioni disfunzionali, richiede tecniche e strategie adeguate, adottarne di sbagliate significa peggiorare la propria condizione.



27 maggio 2021


Un importante sistema motivazionale è quello dell’attaccamento, si tratta di un modello operativo interno innato e che condividiamo con mammiferi e uccelli.

Ogni essere vivente, per tutta la vita, ha bisogno di attenzione, cura, conforto, protezione, comprensione, affetto.

Nicoletta Spinelli 
I once was vulnerable

Se il sistema dell’attaccamento di un individuo trova risposte positive da parte degli altri, questi sviluppa senso di sicurezza in sé con conseguente autostima, equilibrio psichico, senso di soddisfazione per ciò che è come persona; le emozioni che prova verso sé stesso e verso gli altri sono di segno positivo, egli vive con fiducia verso i propri mezzi e verso gli altri.

Al contrario, se i bisogni addotti dal sistema dell’attaccamento non trovano compimento, la persona vive con sofferenza interiore, scarsa autostima, poca fiducia verso gli altri e verso il proprio futuro. I sentimenti che prova sono generati da un sistema cognitivo che la descrivono come non amabile, incapace di districarsi nelle situazioni sociali, non meritevole di attenzione da parte degli altri.

L’affettività dipende in larga misura da come si vive emotivamente l’interazione con le figure di riferimento e da come queste ultime rispondono alle richieste di attaccamento.

Le carenze affettive favoriscono lo svilupparsi del rafforzamento e della radicalizzazione delle credenze di base disfunzionali riguardanti il sé, il sé con gli altri e gli altri.

Nella timidezza questo problema è assai comune.

La persona timida con carenze affettive è insicura, manifesta indecisione nei momenti delle scelte e delle decisioni, vive con timore e ansia le relazioni interpersonali e l’interazione con le persone dell’altro sesso verso cui prova sentimenti d’amore o bisogni sessuali: paure e ansia che producono l’inibizione ansiogena rendendo ostico ogni tentativo di relazionamento.

Se la persona timida sviluppa credenze riguardanti la non amabilità, il livello di autostima è assai basso. Nei suoi tentativi o desideri di instaurare relazioni amicali o di coppia si ritrova con pensieri automatici previsionali improntati all’idea del fallimento o del rifiuto da parte degli altri mentre i pensieri automatici, riguardanti mezzi e possibilità proprie, tendono a riferirsi all’idea di non essere sufficientemente attraente fisicamente o come persona, di non ispirare interesse negli altri, di non essere all’altezza di gestire una relazione interpersonale, di non essere capace di amare, che il proprio futuro è nero.

Se il soggetto timido ha sviluppato credenze di inadeguatezza, l’idea del fallimento ed il giudizio negativo altrui si presentano con insistenza nei pensieri previsionali.

Le carenze affettive nelle persone timide possono tradursi in comportamenti passivi e di dipendenza verso l’altro/a per cui rischiano di apparire appiccicosi, insistenti, talvolta logorroiche; in altri casi possono svilupparsi idee e sentimenti che si svolgono sul tema della scarsa fiducia, della non credibilità, non affidabilità degli altri per cui esse vivono con distacco e sospetto sia le relazioni amicali, sia quelle di coppia.

In questi ultimi casi esse avvertono il bisogno del controllo orientato a verificare l’effettivo interesse provato da un altro/a o dagli altri, per cui tende a mettere alla prova i soggetti con cui entra in relazione e ciò, alla lunga, produce crisi relazionali.

Date le forti difficoltà che incontrano nelle relazioni interpersonali, gli individui timidi vivono una condizione di solitudine, spesso di isolamento: fattore che li induce al ritiro sociale.



20 maggio 2021




SECONDA PARTE

Classificazione in base alle situazioni ansiogene


Un altro modo di classificare la timidezza è in base ai tipi di circostanze e alle situazioni ansiogene.

Annamaria Maremmi - Identità perdute

Una molto comune è la timidezza d’amore. Il disagio e la difficoltà nel manifestare, in modo verbale e comportamentale, i sentimenti e le intenzioni nei confronti della persona con cui si desidera instaurare una relazione di coppia che soddisfi, in modo stabile, i bisogni affettivi e sessuali.


In questo tipo di timidezza sono coinvolti, in modo particolare, i sistemi motivazionali dell’attaccamento e quello sessuale.
Da ciò si può comprendere come sia centrale il bisogno di appartenenza ristretta circoscritta, prevalentemente, a due persone.

Le credenze di base, alla radice della timidezza d’amore, che sono inconsce, possono essere di vario tipo ma che, fondamentalmente, rimandano a una idea di inadeguatezza della propria persona: l’idea di non essere amabile o meritevole di amore, di non essere attraente come persona, di essere difettoso/a per nascita, di essere inabile nel relazionarsi alle persone, di essere incapace nel gestire una relazione.

Tutte le credenze derivate attive nella mente del soggetto timido ricalcano quelle di base giustificandole con norme condizionali o doverizzanti, con motti e assunzioni.

Percependosi inadeguata, la persona timida teme profondamente l’insuccesso, il rifiuto, il giudizio negativo dell’altro/a o dei terzi.

Spesso, l’individuo timido elabora teorie naif riguardanti la propria inadeguatezza che tendono a individuare le cause della propria timidezza d’amore su fattori esteriori, come a esempio quello dell’aspetto fisico, cioè, su elementi di valutazione che poggiano su come ci si percepisce, sull’apparenza piuttosto che sui contenuti reali che causano il proprio disagio.

La timidezza da prestazione è caratterizzata dall’ansia e dalla paura di fallire nello svolgimento di un compito, una azione, una performance.

In questa forma di timidezza prevalenti sono le credenze di base inerenti l’idea di inabilità sociale e incapacità di fronteggiare con efficacia le situazioni che si temono.

Quando una persona timida si trova in queste situazioni è preda di inibizioni ansiogene che conducono a movimenti impacciati, a blocchi della memoria, a difficoltà verbali.

La paura del fallimento e del giudizio negativo degli altri costituiscono le emozioni negative principali. È frequente, in questo tipo di timidezza il comportamento evitante con il quale il soggetto timido tenta di sottrarsi ai rischi temuti. A esempio, è frequente nei giovani l’abbandono degli studi.

La timidezza di visibilità è centrale nelle persone che temono fortemente il giudizio negativo degli altri e le situazioni in cui sentono di essere al centro dell’attenzione. Si tratta di persone che vorrebbero poter essere invisibili.

Questo tipo di persona timida si percepisce troppo trasparente agli altri, ritiene che la propria condizione psicologica e le presunte inadeguatezze emergano facilmente verso l’esterno per cui ci si sente esposti agli occhi degli altri, a un loro giudizio negativo considerato certo.

Il bisogno di accettazione sociale è molto forte.

I sistemi motivazionali cooperativo, gregario e dell’attaccamento non riescono a trovare alcuna forma di soddisfazione.

Il timore dell’esclusione sociale come conseguenza del giudizio negativo altrui è, forse, l’emozione principale avvertita da tali soggetti. Queste persone sono molto ansiose. Anche in questo tipo di timidezza centrale sono le credenze relative a proprie presunte inadeguatezze.

La timidezza d’azione è caratterizzata da forte insicurezza e bassa autostima.

Una delle paure principali è di non essere capaci di districarsi nelle situazioni, di non essere in grado di svolgere con efficacia compiti e ruoli. Un altro timore fortemente percepito è la paura del fallimento.

Queste due emozioni inducono la persona timida a non prendere l’iniziativa, a mantenere un profilo basso e a preferire ruoli subalterni. Nella loro logica, i pensieri previsionali sono, fondamentalmente, incentrati sul tema del fallimento.

Le credenze di base ricalcano i contenuti delle paure. I sistemi motivazionali della competizione e del rango non riescono ad essere soddisfatti producendo, così, il crescere della bassa autostima.

Nella timidezza del quotidiano il problema centrale è percepirsi diversi nell’ordinarietà delle relazioni interpersonali.

Ciò che per gli altri è “ordinaria amministrazione”, per queste persone è qualcosa di complicato, causa d’ansia e preoccupazione che si manifestano nell’interazione con gli altri. Le situazioni di stallo e i silenzi nelle conversazioni costituiscono un grave disagio.

Le persone che vivono una tale forma di timidezza non sono a loro agio nelle conversazioni generiche, nelle situazioni “frivole”. Alla fine finiscono col tenersi ai margini nelle situazioni sociali ordinarie.

Anche in questo caso le credenze di base sono improntate all’idea di incapacità e inabilità sociale. Spesso il mancato apprendimento di modelli relazionali si presenta sia come concausa, sia come conseguenza per questa forma di disagio sociale.

La timidezza da rivelazione di sé è caratterizzata dalla difficoltà nell’esplicitare o nell’esternalizzazione di ciò che riguarda la propria persona. In questa forma di timidezza l’individuo non riesce a parlare di sé, delle proprie emozioni, sentimenti e paure.

Anche in questo caso la persona timida avverte di non avere sufficienti elementi di difesa qualora dovessero emergere, all’esterno, quelli che considera i propri punti deboli. Il timido da rivelazione di sé teme di esporsi alla mercé degli altri, di apparire troppo fragile e debole.

In questo tipo di timidezza, il bisogno di accettazione è marcato e, quindi, il timore del giudizio negativo altrui è centrale. Il paniere delle credenze di base disfunzionali è piuttosto ampio e i sistemi motivazionali che restano insoddisfatti sono quelli sociali.

Il timido da rivelazione di sé vive tale disagio soltanto nelle situazioni in cui è coinvolta la propria sfera personale, in tutte le altre situazioni può apparire persino una persona estroversa.