Nel 1967, Watzlawick, Beavin, e Jackson affermarono un concetto che resta basilare per la comprensione sia della comunicazione sia della percezione dell’altro: l’impossibilità di evitare di comunicare sia in qualsiasi cosa si faccia, sia che non si faccia alcunché.
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Escher - relatività |
Gli esseri viventi esprimono istintivamente i propri stati emotivi attraverso espressioni facciali, movimenti del corpo, posture, espressioni vocali, eccetera. Nell’uomo, anche per mezzo del tono o il volume della voce, la verbalità.
Tutte queste espressioni istintive sono correlate a significati che fanno parte della nostra conoscenza implicita, cioè di un sapere innato che ereditiamo in quanto parte del patrimonio, in gran parte genetico, della specie.
Ciò significa che ogni nostro comportamento fisico o verbale è interpretato dagli altri attraverso i significati che essi esprimono per mezzo della conoscenza implicita.
Non è un caso che quando incrociamo una persona ne riceviamo una “impressione” riguardo suo stato emotivo e il suo modo inconscio di disporsi nei nostri confronti.
Nell’uomo, alle interpretazioni innate dei comportamenti fisici e verbali, si aggiungono quelli appresi per trasmissione culturale. Fatto che rende ancora più complesso e articolato il mondo della comunicazione.
Il modo con cui percepiamo l’altro/a è una diretta conseguenza della nostra conoscenza implicita, di quella esplicita, della nostra personale storia esperienziale.
Va considerato che il linguaggio verbale, sebbene abbia ampliato notevolmente le nostre possibilità espressive e descrittive, presenta una complessità dovuta al fatto che obbedisce a significati condivisi per convenzione sociale.
Il problema è che queste convenzioni sui significati vanno appresi attraverso l’apprendimento di modelli espressivi. La mancanza o il mancato esercizio di tali apprendimenti produce dei seri problemi.
Anche il linguaggio non verbale, nel corso dell’evoluzione umana e della crescente complessità della socialità, si è arricchito di nuovi segni comportamentali. Anche questi si apprendono per mezzo dell’interazione sociale. Molti comportamenti appresi sono propri di un popolo, una etnia, addirittura di singoli gruppi.
La percezione dell’altro/a e l’interpretazione dei comportamenti fisici e verbali è in funzione di tutti questi aspetti ma anche del nostro stato emotivo del momento, delle situazioni contingenti.
Hai mai sentito l’espressione “Si capisce ciò che si vuol capire?”. Ecco questa descrive puntualmente cosa intendo quando parlo di interpretazione o percezione dell’altro/a attraverso lo stato emotivo in cui si trova la mente al momento della comunicazione.
A chiarimento di ciò si sappia che, a esempio, il volere avere per forza ragione su una questione è uno stato emotivo; spesso, anche interpretare personalizzando una frase o un comportamento come gesto di attacco verso la propria persona è uno stato emotivo.
Dato che non possiamo non comunicare e che, quindi, indipendentemente dalle nostre reali intenzioni, qualsiasi nostro comportamento o espressione verbale, comunica agli altri sensi e significati su chi siamo e come ci rapportiamo agli altri, la percezione che l’altro ha di noi è soggettiva.
Diverse persone con ansia sociale si sentono dire frasi del tipo: “non ti valorizzi”. Una frase del genere ci dice di come l’altro ci percepisce guardando i nostri comportamenti, il nostro modo di vestire, di curare il corpo. Ci dice anche che i suoi modelli comportamentali, l’insieme dei segni e dei significati appresi lo inducono a percepirci come una persona che ha poca cura di sé.
D’altra parte, ciascuno di noi percepisce i comportamenti fisici e verbali degli altri in un determinato modo. Se incroci un individuo per strada, anche tu ti fai un’idea di che tipo di persona sia quella che hai appena incrociato. Pensaci.
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