27 marzo 2022


Il comportamento è l’atto finale e attuativo di un insieme di processi cerebrali attivati da stimoli esterni o interni. 

Capita a tutti di far cose come se si avesse un pilota automatico. Molti di questi comportamenti si hanno quando sono abitudinari.

Comportamenti sub coscienti 

Vittorio Piscopo - Orchestrazione

Sono quei comportamenti i cui processi mentali non raggiungono il livello di coscienza di ordine superiore.
Proprio perché non richiedono elaborazione mentale consapevole, hanno una rapida attuazione e necessitano di un impulso emotivo.

A questi processi sottende la gran parte della conoscenza implicita e, perciò, la loro automaticità non richiede necessariamente la reiterazione. Tale categoria di comportamento sono, in genere, automatici, li attuiamo in maniera “istintiva”.

Comportamenti coscienti

Si tratta di quei comportamenti i cui processi cerebrali sono sottoposti al vaglio delle funzioni mentali della coscienza di ordine superiore. Sono il risultato dell’interazione tra processi inconsci ed elaborazione cognitiva cosciente. 

Questa seconda classe di comportamenti fa ricorso sia alla conoscenza esplicita, che a quella implicita. Ne fanno parte anche i comportamenti appresi. Acquisiscono automaticità tramite la loro reiterazione.

Nel processo di automazione di un comportamento, risultante dall’interazione tra processi neurali inconsci ed elaborazione cognitiva, intervengono anche le emozioni e la memoria “emotiva” delle esperienze vissute; proprio per questo, nelle ansie sociali, i comportamenti automatici sono anche il risultato della storia delle esperienze dell’individuo.

C’è una stretta correlazione tra i comportamenti coscienti automatici e il carattere di un individuo. Infatti, il carattere è costituito dall’insieme dei comportamenti abituali di una persona.

Le emozioni giocano un ruolo significativo nell’attivazione di un comportamento. Nelle ansie sociali il comportamento cosciente, anche se vi sottende un processo di valutazione cognitiva, risente della potenza delle emozioni e ne è fortemente condizionato.

Una persona timida è costretta a fare i conti con l’emozione della paura e il conseguente insorgere dell’ansia, fattori questi che, insieme alle attività di pensiero emotivo di segno negativo, alimentano il circolo vizioso della timidezza.

La paura dell’insuccesso, dell’essere rifiutati, del giudizio negativo altrui, in altre parole, della sofferenza, alimenta i pensieri automatici negativi e, questi, riattivano le emozioni e le ansie perpetuandole.

La conseguenza di tutto ciò è l’attuazione di comportamenti di fuga o evitamento. L’individuo timido si chiude in sé stesso, rinuncia a quelle azioni preferite che gli procurano paura e ansia, fomentate dai pensieri previsionali negativi.

Dato che un ansioso sociale attua questi tipi di comportamento in modo sistematico in tutte le situazioni ansiogene, conferisce agli stessi carattere automatico.

Parlo, dunque, di comportamenti che nel tempo diventano l’abituale risposta agli stimoli ansiogeni. Risposte comportamentali che sono anche il frutto di un forte condizionamento dovuto, non solo ad ansia ed emozioni, ma anche e soprattutto all’attivazione di credenze disfunzionali di base, intermedie e dei pensieri automatici negativi.

Tali risposte abituali, nel tempo, diventano gli unici strumenti presenti nel paniere comportamentale dell’ansioso sociale che li attua come se fosse oggetto di un impulso “istintivo”, effetto questo, dovuto dal processo di automazione che si è già sviluppato.

Generalmente, il soggetto timido, dopo aver praticato un comportamento automatico come reazione alla situazione ansiogena, è cosciente di quanto accaduto e ciò gli comporta una ulteriore sofferenza e un processo alle proprie intenzioni.

Egli tende ad una critica feroce nei propri confronti che va ad alimentare, confermare e rinforzare tutte quelle cognizioni disfunzionali sul sé, sul sé con gli altri e sugli altri che ineriscono alle idee di incapacità, inabilità, non amabilità, difettosità fisica o mentale della propria persona.




7 marzo 2022


Alberto non si approccia ad altre persone perché pensa di dar loro fastidio; Carmela non va a far visita ad amici e conoscenti perché pensa di essere inopportuna; Michela non partecipa alle conversazioni perché pensa di essere fuori luogo.

La fine nell`inizio -Gemma Spada 

Nella timidezza, come nelle altre forme di ansia sociale, l’idea di procurare fastidio agli altri genera comportamenti di evitamento che producono auto isolamento ed esclusione sociale, solitudine, una vita relazionale assai povera, grandi difficoltà nella costruzione di rapporti di amicizia, di coppia, di lavoro.

Questo tipo di pensiero e i comportamenti conseguenti che genera sono, spesso, reiterati talmente tante volte da acquisire carattere automatico.

Uno dei problemi di base che ricorre in questi casi è quello dell’accettazione sociale e, questo, fa riferimento al bisogno di socialità che, nella specie umana, assume importanza fondamentale per l’equilibrio psicofisico dell’individuo.

La socialità nell’evoluzione della nostra specie (e del cervello umano) ha prodotto la comparsa di diversi sistemi motivazionali come quelli dell’attaccamento, dell’affiliazione, del legame sessuale.

L’idea di essere un soggetto disturbante non nasce all’improvviso ma si forma e radicalizza nella mente già a partire dalla nascita.

Sottostanti a questi pensieri ci sono credenze di base che descrivono e definiscono il sé come individuo non amabile, non attraente come persona, non meritevole di attenzione e amore, “difettoso” per nascita.

Un bambino che ha avuto genitori disattenti, assenti, poco partecipi alle sue richieste di accudimento, ha elevatissime probabilità di sviluppare questi tipi di credenze.

Altrettanto può accadere a un bambino con genitori ipercritici nei suoi confronti o con tendenze violente.

Tuttavia, l’idea di recare disturbo, di essere di impiccio agli altri, può subentrare anche nel corso della vita dell’ansioso sociale quando si è già generato uno stato di isolamento, quando ci si viene a trovare in una condizione di non appartenenza sociale.

In questi casi il soggetto timido conia l’idea di essere di impiccio agli altri sulla base della propria storia emotiva e delle interazioni sociali segnate da abbandoni, fallimenti relazionali traumatici o comunque al limite dello shock emotivo, isolamento attuato dagli altri come risposta ai comportamenti disfunzionali.

Infatti, quando l’ansioso sociale viene a trovarsi nella condizione di non appartenenza sociale che si protrae per lunghi periodi, quando non si sente accettato dagli altri, tende a sviluppare cognizioni strutturali del sé e del sé con gli altri, improntate all’idea di non essere meritevole di attenzione o di amore. Egli si sente rifiutato e, pertanto, ritiene che ogni suo tentativo di partecipazione possa essere percepito come una seccatura, una rottura di scatole, inopportuno o generare insofferenza.

Anche credenze di base inerenti all’idea di essere incapace o inabile socialmente possono produrre l’idea di recare fastidio agli altri, così come può accadere anche nel caso in cui ci si percepisce come soggetto fisicamente difettoso.

In quest’ultimo caso la persona timida, percependosi difettosa nella propria corporeità, sviluppa l’idea che tale sua condizione possa generare sentimenti di repulsione o di schifo.

Comunque sia, il modello comportamentale che segue ai processi mentali condizionati da un sistema cognitivo disfunzionale viene sempre posto nel quadro di un comportamento evitante.

Il soggetto ansioso valuta l’idea di non essere gradito come se fosse un dato di fatto reale e pressoché certo.

In altre parole quest’idea negativa sul sé con gli altri, travalica il principio della descrizione e dell’ipotesi fino a diventare, essa stessa, dimostrazione della validità e verità del non essere graditi.

Stando così le cose, la persona timida se solo tenta di sfidare tale pensiero si ritrova travolto dall’emozione della paura e dai sintomi dell’ansia, fattori che possono presentarsi con alti livelli di intensità, tanto da scoraggiare ogni altra iniziativa.