20 ottobre 2022


Negli anni 80 dello scorso secolo, nel macaco, furono individuati, nella corteccia pre motoria, i cosiddetti neuroni specchio. A metà degli anni 90 si dimostrò la loro esistenza anche nell’uomo.

Per comprendere la loro funzione è necessaria una piccola premessa. 

Angelo Giarmana - ricerca di identità

Il nostro cervello “mappa” (mappa cerebrale) continuamente il corpo e lo fa anche in risposta agli stimoli emotivi. In quest’ultimo caso ciò che viene mappato è una sorta di simulazione dell’emozione. In breve il cervello può simulare determinati stati del corpo come se questi si stessero veramente verificando. Volendo fare una battuta potremmo dire che il cervello è capace anche di creare una fiction nel corpo di cui è parte.

Ebbene, le specchio sono cellule neuronali che hanno la capacità di registrare i comportamenti di altri soggetti e permettono, così, al cervello di creare la loro simulazione. 

La funzione della rete dei neuroni specchio è permettere al cervello di intuire prontamente l’intenzionalità nel comportamento di un altro soggetto.

Questo ci conduce al concetto di sincronia tra stati mentali in relazione tra loro. Detto in altri termini, due persone che entrano in relazione significativa vivono stati sincronici mentali. 

Per fare qualche esempio banale, lo stato di sincronia mentale lo puoi riscontrare se fai caso al fatto che lo stato emotivo di una persona con cui stai interagendo in modo significativo, finisce col condizionare anche il tuo stesso stato mentale. Pensa ai sorrisi che ti mettono di buon umore, alle risate di un amico che fanno ridere anche te, alla tristezza di una persona vicina che rende triste anche te, al particolare rapporto di relazione che si crea tra il neonato e la madre. Sono condizioni di stati mentali sincronici.

Gli stati mentali sincronici e la comprensione dell’intenzionalità dell’altro entrano, a pieno titolo, nella formulazione cognitiva riguardante l’idea di sé e di sé con l’altro. Chiaramente in tutto ciò entrano in gioco anche altri fattori.

Dunque, io formulo un’idea di me in funzione della storia delle mie esperienze relazionali, di come le ho vissute emotivamente, di ciò che queste esperienze hanno prodotto nella mia vita individuale e sociale.

Prima ho parlato di mappe cerebrali. In altri articoli e riferendomi al sé, le ho chiamate “credenze” o “cognizioni del sé”. Sto parlando di modelli interpretativi della realtà che la mente costruisce per permettere il raggiungimento degli scopi.

In realtà, non formulo una idea unica di me, ma una pluralità di idee di me e di me stesso con l’altro. E qui entra in gioco la questione delle identità. Io sono A se mi sto relazionando con Adele, sono B se lo sto facendo con Aldo, sono C se lo faccio con Tizio, sono D se mi sto relazionando con Caio, sono E se sto con tutti loro messi insieme, e così via.

Perché succede? Perché con ciascuna di queste persone con cui ho interagito ho vissuto specifiche esperienze che non sono state le stesse con gli altri, ho provato quella specifica emozione con quella determinata intensità che non ho provato con gli altri, mi sono comportato in quel determinato modo che non si è ripetuto con gli altri, ho vissuto esiti di quell’interazione che non sono stati gli stessi verificatesi con gli altri, perché quella specifica persona ha interagito con me in modo diverso da come gli altri hanno interagito con me. Perché ho percepito me stesso in modo diverso da come mi sono percepito con gli altri. Con ciascuna di queste persone, il mio cervello ha disegnato una mia specifica identità.

Facci caso. Con certe persone sei più sciolto/a, con altre timoroso/a, con altre ancora nervoso/a, con alcune parli senza smettere, con altre non hai nulla da dire.

Tuttavia tutto ciò non significa, né implica, che viviamo in una bolgia confusa di identità. 

Più che altro, abbiamo una identità dominante che si manifesta nella nostra quotidianità e una serie di “variazioni” che s’innestano a seconda delle circostanze relazionali.



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