26 aprile 2011

Se un bambino nasce con una predisposizione genetica all’ansia, crescendo in un ambiente familiare con soggetti ansiosi, sviluppa e manifesta disturbi d’ansia, ma questo può accadere anche a bimbi che non hanno un’eredità genetica in tal senso.


Questo scenario è emerso con chiarezza dallo studio longitudinale condotto dal dr Jerome Kagan e dalla sua equipe, e anche da uno studio fatto presso l’università di Oxford su un campione di oltre 12.000 coppie di neo genitori.

Un genitore apprensivo e quindi iperprotettivo, tende a reprimere i comportamenti esplorativi del figlio, impedendogli di apprendere per mezzo dell’esperienza diretta; il bimbo si trova a non avere né la possibilità di scoprire e imparare attraverso la sperimentazione, né di assimilare forme e modi comportamentali efficaci, tramite l’esempio nella pratica quotidiana dei genitori che, come abbiamo visto, trasmettono modelli inadeguati.

Il bambino, che viene impedito in diverse attività tipiche dell’infanzia, rischia di sviluppare sentimenti verso se stesso, d’incapacità e d’inferiorità nei confronti degli altri, sentimenti che portano come conseguenza al timore di esprimersi, di comunicare, di agire e a comportamenti come l’evitamento, la rinuncia, il chiudersi in se stessi, l’auto isolamento, la remissività.

Max Ernst - vergine che sculaccia il bambino
Da un genitore aggressivo possono essere trasmessi modelli comportamentali indirizzati in due direzioni, da una parte verso culture e atteggiamenti non rispettosi dei diritti altrui e a sviluppare sentimenti di odio-rancore, di presunte superiorità, di auto isolamento, desideri di potere e/o sopraffazione, ma anche difficoltà comunicative e di relazione in generale; da un’altra parte, l’aggressività o un’estrema severità, che recano con sé atteggiamenti anche molto umilianti e che favoriscono convinzioni d’inferiorità e inadeguatezza.

Dai comportamenti passivi dei genitori escono modelli interpretativi del mondo sociale che possono trasmettere al bambino, convinzioni di dipendenza dagli altri, d’incapacità, inadeguatezza. 
Sono modelli che, se assorbiti dal bambino, hanno come conseguenza il formarsi di sentimenti come il timore dei giudizi altrui e comportamenti di sudditanza, di evitamento e rinuncia, difficoltà nell’esprimere affetti, emozioni e pareri.

Per comportamento s’intende tutto ciò che si dice e tutto ciò che si fa. 
I comportamenti dunque, sono intesi come il frutto di una decisione, queste si possono manifestare sia sotto forma di linguaggio verbale, sia in termini di movimenti e gestualità corporea, atteggiamenti e azioni esecutive di precisi intenti coscienti o di moti involontari.

Quando il comportamento ansioso di un genitore è assorbito dal figlio, quindi appreso, questi lo traduce anche in idea o convinzione, associa cioè, a quelle determinate azioni, a quelle determinate frasi, un significato e un senso, ovviamente, lette secondo la "logica" propria della condizione infantile o adolescenziale, filtrate dal temperamento personale, quindi, dal proprio modo di percepire gli eventi, e condizionate dalle credenze che si sono già formate nella sua mente.

Il fatto che il comportamento dei genitori è ripetuto dal bambino, non significa che quest'ultimo gli associ lo stesso significato che è assegnato dagli adulti; il bambino, infatti, percepisce tutto ciò che lo circonda, che giunge ai suoi sensi, secondo quelle che sono le prerogative e le facoltà, proprie, del livello di sviluppo cerebrale, legata allo stadio della sua crescita fisica a quel momento.

Ma non tutti i comportamenti assimilati o subìti si traducono in idee e convincimenti, infatti, si trasformano in credenze soprattutto quei comportamenti, cui il bambino assiste o subisce, che accadono in modo reiterato nel tempo e che, pertanto, lo sensibilizzano e a cui tende ad assegnare sempre lo stesso significato.

Quanto ho detto, implica che i comportamenti attuati dai bimbi, per somiglianza o imitazione di quelli operati dai genitori, non generano dei cloni ma comportamenti e credenze che esprimono una precisa individualità.

20 aprile 2011

L'ambiente familiare costituisce, per un bambino, il primo impatto con il mondo esterno, un contatto essenziale non solo per la totale non autosufficienza, ma anche per acquisire le prime conoscenze del mondo reale. Già dai suoi primi giorni di nascita, il bambino comincia la sua opera nella costruzione di una mappa interpretativa di tutto ciò che giunge ai suoi centri sensoriali, un insieme di credenze su se stesso, gli altri, il mondo che lo circonda, quest’insieme va a costituire il sistema cognitivo.

Pablo Picasso - The Tragedy
I genitori, in questa prima fase di vita del nascituro, rappresentano gli "altri" da sé, la categoria degli umani che non coincidono con la percezione del sé, sono appunto tutti gli altri. Quest’aspetto implica che il bambino qualifica le persone per come percepisce i suoi genitori, di come questi si rapportano a lui nel rispondere alle sue richieste e ai suoi bisogni; in funzione di queste risposte, egli legge anche se stesso in termini di amabilità, accettabilità, meritevolezza. Il bambino ha però, anche la necessità di apprendere come rapportarsi al mondo esterno e lo fa assumendo come punto di riferimento privilegiato, quasi assoluto nei primi anni di vita, i propri genitori o gli accudenti (caregiver).

Un bambino, che ha un cervello non ancora sviluppato del tutto, apprende le modalità di relazione soprattutto prestando attenzione ai comportamenti dei genitori, per comportamento intendo ciò che si dice, come lo si dice, ciò che si fa, quello che è percepibile da un soggetto esterno. 
I bambini sono dotati di curiosità istintiva, tutto ciò che accade intorno a loro, è un momento di scoperta, di esplorazione, di memorizzazione, di sperimentazione. Scopre ed esplora ascoltando non tanto le parole in sé, il cui significato gli è inizialmente del tutto sconosciuto, quanto il tono, il volume della voce e le inflessioni umorali, lo fa anche guardando la gesticolazione, la mimica facciale attraverso cui egli può interpretare il senso di bello/brutto, rabbia/gioia, gusto/disgusto, eccetera. Sperimenta imitando i comportamenti che vede attuare, memorizza le proprie esperienze dirette, e tutto ciò che ha visto, sentito e ascoltato, le emozioni che ha provato.

15 aprile 2011

L'insicurezza si può definire uno stato mentale, una condizione psicologica che scaturisce da una percezione di sé come di un soggetto fortemente povero di abilità, in un insieme di attività che non possono prescindere da relazioni sociali, sia nella sfera della vita privata, sia in quella pubblica e lavorativa.



La persona insicura è afflitta dalla paura:
  • Ha il timore di sbagliare.
  • Di danneggiare se stesso o gli altri.
  • Di non avere le capacità di svolgere determinate funzioni.
  • Di non avere le abilità necessarie o sufficienti per instaurare valide relazioni umane di vario tipo.
  • Di non avere comportamenti adeguati alle circostanze in cui è, o sta per esservi coinvolto e, di conseguenza, di produrre come risultato il giudizio negativo altrui.
  • Ha paura che le sue presunte inabilità possano apparire evidenti agli altri, e quindi, di incorrere in un loro giudizio negativo.
  • Teme di subire danni ad opera di altri come conseguenza del suo comportamento.

Carlo Carrà - attesa
L'insicurezza, dunque, rende un sentimento di vulnerabilità, di fragilità, di precarietà, di limitatezza. Chiaramente, laddove sono presenti questi sentimenti troviamo, inevitabilmente, anche un basso livello di autostima.
Insicurezza e mancanza di autostima sono strettamente legati, in quanto la prima condiziona fortemente la seconda, una persona insicura ha grande difficoltà nel prendere delle decisioni, perché nel suo convincimento che le proprie scelte sono destinate all'errore o al fallimento, passano per una valutazione negativa delle sue personali doti e competenze, fatto questo, che comporta un livello assai scarso della stima di sé.

 In realtà l'insicurezza è presente in ogni essere umano, è una sorta d'ansia  esistenziale con cui convive, ma che si attiva solo nelle situazioni di pericolo oggettivamente presente nella coscienza o conoscenza collettiva. Possiamo considerarla come un aspetto del carattere di ciascun individuo.
Nei soggetti ansiosi l'insicurezza da componente "paritetico" del carattere si trasforma in fattore distintivo della natura caratteriale e della personalità.

Chi ha letto il mio libro "Addio timidezza", comprenderà facilmente che le paure alla base dell'insicurezza sono conseguenza dell'insieme di schemi di memoria, di convincimenti riguardanti il sé, di credenze, che costituiscono il sistema cognitivo.

È evidente che l'insicurezza sia una caratteristica peculiare della timidezza e dell'ansia sociale, nelle sue varie forme. Un individuo timido è necessariamente anche indeciso, così come una persona insicura non può non essere un ansioso.

Le considerazioni fin qui svolte m’inducono a un'altra breve riflessione su quelle che possono essere le cause originanti le convinzioni negative che alimentano l'insicurezza.
Tra queste sicuramente i fattori ambientali in cui si cresce, come frequenti reiterazioni di comportamenti genitoriali inibenti, assenti, distratti, rimproveranti, incentrati sul confronto con altri coetanei indicati come esempi positivi, critici, eccessivamente severi, caratterizzati dalla tendenza a sostituirsi ai figli nelle loro decisioni considerandoli inadeguati. In questi casi il bambino, sviluppa una convinzione d’inabilità, che rimarca nei propri comportamenti, rafforzando ulteriormente, nel tempo, il sistema di credenze che ha costruito nel solco dei convincimenti iniziali.

A produrre l'insicurezza psicologica può anche essere l'avere genitori, a loro volta, insicuri, ansiosi, apprensivi, a corto di comportamenti assertivi o di modalità nel relazionarsi agli altri; in questi casi il danno è prodotto da un insufficiente insieme di modelli comportamentali da cui il bambino attinge per il proprio apprendimento.

Voglio però concludere con una nota in positivo. L'insicurezza, di per sé, non è da considerarsi un fattore negativo, chi ne è, o mostra di esserne completamente sprovvisto, corre rischi molto gravi. Le persone che sentono di avere solo certezze, di possedere una capacità di comprensione o di conoscenza illimitata o comunque superiore agli altri possono essere considerate decisamente pericolose: le culture integraliste, il fanatismo nei suoi vari campi d'azione, ne sono la dimostrazione più ampia. Se l'insicurezza si presenta come strumento di coscienza della relatività del proprio essere come soggetto sociale e culturale, non è fattore distintivo di una condizione patologica interiore, ma come principio di una cultura assertiva.

4 aprile 2011

Molte volte incontrando un conoscente si esordisce con frasi del tipo: “Ciao, come stai?”, “hai visto che bella giornata?”, “come vanno le cose?”, “tutto bene?”; così come sovente le conversazioni vertono su argomenti leggeri come lo sport, il cinema, il clima, il pettegolezzo.

Il linguaggio verbale non sempre ha lo scopo di esprimere sensi e significati, idee e pareri. Ad esempio, nel caso delle tipiche frasi d'esordio, il linguaggio verbale è proteso a stabilire un contatto, a rompere il ghiaccio, a trasmettere il desiderio di relazione, in questi casi il contenuto dell'escursione verbale equivale a implicite dichiarazioni d’intenti, di apertura all’esterno, di disponibilità, pertanto quel che si dice, ha un’importanza relativa, oppure non l’ha affatto, perché lo scopo è di dare l'avvio ad una situazione relazionale.

Le cose sono diverse a conversazione già iniziata. Gli argomenti leggeri sussistono per una serie di condizioni:

Pompei - Villa del Cicerone

  • Quando parte o tutti i soggetti relazionanti sono orientati a vivere momenti di svago o relax.
  • Quando c'è una scarsa conoscenza degli interlocutori; in tal caso risulta difficile individuare gli argomenti graditi agli altri.
  • Quando gli individui presenti sono psicologicamente restii ad esprimere pareri, emozioni o sentimenti.
  • Quando l'introduzione di un determinato argomento può diventare o diventa, momento di estraniazione di parte del gruppo o suscitare atteggiamenti di rifiuto.
  • Quando si verifica una condizione più o meno collettiva di pigrizia, d’indecisione, di distrazione, di stanchezza fisica o mentale.
  • Quando parte o tutti i soggetti relazionanti hanno un basso profilo culturale.
  • Quando i componenti del gruppo sono mossi da spirito e intenzioni goliardiche.
  • Quando si è in presenza di un’oggettiva difficoltà di comunicazione che può essere dovuta a diverse cause e condizioni psicologiche contingenti.
  • Quando il mantenere un livello leggero della conversazione serve a tenere unito il gruppo, ad evitare la disaggregazione o il disinteresse della maggioranza dei componenti del gruppo.

Molte persone che hanno difficoltà nelle relazioni interpersonali, considerano tali usanze delle inutili banalità. Queste considerazioni partono da un'eccessiva focalizzazione su se stessi all'interno delle situazioni in cui ci si muove con disagio, sulle proprie presunte, vere o scarse, abilità sociali. Gli individui anassertivi, timidi o gli ansiosi sociali in generale, per via di questa marcata auto focalizzazione, perdono di vista sia l'oggetto reale della comunicazione, sia le circostanze e le condizioni che determinano, nello specifico, i modi e le forme che caratterizzano le conversazioni.

L'atteggiamento di critica o contrarietà a queste cosiddette "banalità" testimonia anche una propria difficoltà nel districarsi in discussioni che, sebbene siano "leggere", presentano una vasta gamma di modalità espositive, grazie ad un’evoluzione dovuta al frequente esercizio nella discussione di tali temi. Dato che, la carenza di abilità verbali e discorsive, per lo più, è il portato di un mancato apprendimento di modelli comunicativi, per il soggetto anassertivo, la conversazione con argomenti poco "impegnativi", comporta un maggior disagio, proprio perché tali temi, sono caratterizzati dall'avere molti schemi di espressione verbale, di cui essi difettano.

Giudicare negativamente le conversazioni non "impegnate", bollandole come banali, superficiali o non serie, significa non tenere nella giusta considerazione gli elementi contingenti dello status psicologico ed emotivo del momento, la composizione del gruppo, il retroterra culturale e sociale di singoli membri, i fattori unificanti dell'aggregato, le condizioni e gli eventi che hanno preceduto la conversazione, gli usi e i costumi della comitiva, la disposizione psicologica e mentale in cui è posto ciascuno dei membri del gruppo in quel momento.

Non di meno il discorrere in modo sistematico, univoco, ripetitivo, di temi leggeri, che escludono argomenti della conoscenza, della cultura e del pensiero, comporta la riduzione di abilità dialettiche, discorsive, di analisi, di raziocinio organico. Le abilità logiche e comunicative umane, per essere pienamente operanti, abbisognano di esercizio, senza di esso, si "atrofizzano", perdono la capacità di organizzare efficaci modelli espositivi del pensiero, di articolare in modo efficiente gli elementi logici del discorso all'interno di un confronto dialettico, di collegare tra loro una pluralità di dati di conoscenza nelle comunicazioni verbali anche in forma di monologo.

Gli eccessi fanno sempre male.