26 agosto 2013


seconda parte

Quando, in un individuo timido, il timore diventa quasi un’ossessione, qualsiasi cosa dicano o facciano gli altri, egli lo interpreta come indirizzata alla sua persona, e non è percepita in modo generico: gli occhi, le parole e i pensieri degli altri, hanno caratteristiche ben precise, sono sfottò, sono derisioni, sono disprezzi, sono cattiverie.

Nel momento in cui gli ansiosi sociali, i soggetti timidi, assumono queste logiche interpretative, anche i loro comportamenti (ciò che si dice e ciò che si fa) risentono di tale modalità percettiva, determinando un ulteriore distacco tra sé e il mondo sociale.

Gli altri, che certo non hanno il potere di leggere nel pensiero altrui, sono, in un certo senso, incentivati a distanziarsi, a loro volta, da essi. Le persone timide, loro malgrado, si escludono da sole perché sono in balia dei pensieri automatici negativi, che pervadono - sinistre - la loro mente, e delle loro paure. 

Joan Mirò - osservatori 
Pensieri e timori che, oltre a rinforzare le credenze disfunzionali, conducono a comportamenti disadattivi.

Quando gli schemi cognitivi e i comportamenti, così delineatesi, producono i disadattamenti sociali e  conseguenze derivanti, di colpo, gli altri appaiono come individui orientati a fare del male, a godere delle sofferenze altrui. I loro linguaggi e comportamenti, persino se benevoli, sono interpretati come falsità e ipocrisie.

Un aspetto di questa condizione è la deresponsabilizzazione, una sorta di depersonalizzazione delle cause derivanti dal sé. 

La persona timida, non riuscendo a gestire il proprio stato emotivo e a trovare soluzioni efficaci ai personali comportamenti disadattivi, ripone negli altri le sue attese liberatorie, egli si aspetta che gli altri si facciano carico delle sue difficoltà, ritenendo che amici, conoscenti, colleghi, eccetera, lo debbano tenere sempre in considerazione in ogni circostanza e in ogni momento. 

Il problema è che gli altri non hanno né il potere, né la possibilità, di intervenire nella sua mente, nei suoi pensieri disfunzionali, sulle sue paure.

Giacché il suo disagio è di origine cognitiva, alimentato dalle credenze disadattive, dai pensieri automatici negativi, dalle ansie anticipatorie, da comportamenti, che essendo abituali, sono diventate modalità radicate nei propri modi di agire, dagli altri, che tra l’altro hanno una propria vita privata, non potranno mai pervenire le soluzioni che il soggetto timido si attende. 

Gli altri non sono in grado di annichilire le sue problematiche interiori, nemmeno rinunciando alla propria autonomia, alla libera vita privata, agli obiettivi personali.

In taluni casi, la mancanza di soluzioni provenienti dall’esterno, si trasforma in alibi, generato soprattutto da processi cognitivi inconsci, per deresponsabilizzarsi rispetto a quelle che sono le prerogative disfunzionali del proprio mondo interiore.

In un certo senso ciò è anche un rifiuto del sé, la non autoaccettazione che può sfociare persino nell’auto disprezzo e che si determina con una fuga da sé.

Purtroppo, uno dei paradossi della timidezza è che le paure, le ansie, i pensieri disfunzionali, permangono anche quando le previsioni che ne derivano sono sistematicamente smentite dai fatti.

Infatti, può anche accadere che taluni membri del gruppo di riferimento, in una fase iniziale della relazione, possano provare a rendere partecipe, delle attività comuni, il soggetto braccato dall’ansia sociale, ma tale tentativo difficilmente sortisce risultati concreti.
Comunque sia, i mancati inviti, gli evitamenti stavolta attuati dagli altri, l’apparente disinteresse altrui, le critiche, acquisiscono tutti carattere dimostrativo della cattiveria del mondo: il pessimismo globale è servito su un piatto d’argento.

20 agosto 2013

prima parte

Quando una persona timida è sopraffatta dalla propria condizione, dalla difficoltà di integrarsi nei contesti sociali, subentra il pessimismo.

Non è più solo questione di percepire se stessi come inadeguati a vario titolo, l’intera sfera sociale gli appare come un mondo precluso alla propria persona, una società composta da individui dominati dall’egoismo, dall’insensibilità, negatrice dei sentimenti della solidarietà, della comprensione, dell’accoglienza.

La generalizzazione su quest’idea negativa acquisisce valore quasi assoluto, per cui il mondo degli uomini è, di per sé, inospitale, estromissivo, minaccioso, cattivo. Questa raffigurazione acquista valore di definizione della società umana. 
Benché l’ansioso sociale sia conscio della radicalità di questa sua concezione, non riesce a non pensare in termini così oscuri.

È soprattutto il problema dell’accettazione a essere il terreno di coltura per la formazione di tale percezione del consesso sociale.


Tamara De Lempicka - i rifugiat
Un quadro come questo, si determina quando il soggetto timido vive l’interazione sociale sommerso da una varietà di disagi e dai pressanti timori di essere oggetto dell’osservazione e dei giudizi degli altri.

Ha difficoltà a inserirsi nelle conversazioni, oppresso com’è, dal non sapere cosa dire, dal sentirsi vuoto d’idee, dal percepirsi non all’altezza della situazione o persino inferiore, dall’essere convinto che una sua partecipazione potrebbe rivelarsi inopportuna, fuori luogo, troppo banale, inconsistente, insignificante, noiosa, esempio di stoltezza e stupidità.

Ha difficoltà a rapportarsi agli altri, convinto com’è, di non esserne capace, di non essere meritevole di attenzione, di non essere interessante come persona, di essere troppo goffo per farlo, di non possedere le qualità giuste.

Si sente un pesce fuor d’acqua, fuori contesto, talmente diverso da concepire, o immaginare, se stesso o gli altri, come extraterrestri; pervaso dal timore di essere di troppo, di poter solo arrecare disturbo e fastidio.

Il pensiero di trovarsi al centro dell’attenzione e, pertanto, di essere analizzato, osservato, valutato e giudicato; il percepirsi estremamente vulnerabile e dannatamente trasparente, spingono, le persone timide, a porsi hai confini del gruppo, in disparte come a rinchiudersi in un cantuccio, a declinare gli inviti, a far vita solitaria. 

Questi comportamenti, alla fine, diventano un’abitudine, tanto da delineare il suo carattere, la sua indole, la definizione di se stessi, la sua identità esterna: le credenze disfunzionali vi trovano i loro agiati rinforzi, le loro perentorie conferme di validità.

Più si comportano così, più finiscono con l’auto isolarsi. Si evita, si fugge, si elude, ci si estranea piombando in un coacervo di pensieri che si susseguono rapidamente e indistintamente.

Tutti comportamenti, questi, che hanno il solo scopo di sfuggire al giudizio e agli occhi degli altri. Eppure si sentono ancor di più osservati e sempre più giudicati. 
Tutto ciò che proviene dagli altri, i sorrisi, le paroline, i piccoli gesti, gli sguardi, appaiono puntati su di sé.


12 agosto 2013

Mentre la vergogna è un’emozione che esprime la consapevolezza della propria inadeguatezza, presunta o vera che sia, l’imbarazzo è un’emozione che significa un disagio a seguito di un proprio comportamento, attuato sotto gli occhi di altri, e considerato dal soggetto stesso come inaccettabile o inopportuno.

Essendo l’imbarazzo, una funzione collegata ai contesti sociali, esso si manifesta solo e soltanto alla presenza degli altri. Il comportamento può essere percepito come infrazione alle regole solo se esiste un contesto sociale in cui essa si manifesta.

La funzione strutturale dell’imbarazzo, che è un’attività simpatica del sistema nervoso autonomo, è quella di segnalare una trasgressione di norme sociali, indipendentemente se queste siano reali o temute.

Enrico Baj - Adamo ed  Eva
Le persone timide e gli ansiosi sociali in generale, avendo i problemi di base dell’accettazione sociale e/o della competenza, sono caratterizzati da una marcata tendenza alla focalizzazione su se stessi, quindi dirigono spesso l’attenzione sui loro comportamenti in pubblico. 
Questa propensione auto focalizzatrice induce il soggetto timido ad assumere il preminente ruolo di giudice severo, oltre che di osservatore, dei propri comportamenti, pertanto li compara a quelle che egli ritiene siano norme sociali o pensa che gli altri le considerino tali.


6 agosto 2013

Chi ha letto il mio libro “Addio timidezza”, sa già che sia la nostra memoria, sia le nostre elaborazioni dei dati di conoscenza, si manifestano attraverso il pensiero.

Il pensiero non si estrinseca solo nella forma verbale, che sicuramente è la più comune, esso si esprime anche in forma di immagini mentali fisse o dinamiche o in forma di atto di coscienza. 

Qualunque sia la forma in cui si esprime, la sua direttività dipende, in massima parte, dal problema di base che insiste nel soggetto, e cioè l' accettazione, la competenza e il controllo. La sua funzione è, invece, legata sostanzialmente alla gerarchia tra i diversi livelli in cui si colloca il pensiero. Le sue caratteristiche, infine, si determinano in ragione della funzione e della direttività.

I pensieri espressione delle credenze di base, si esprimono in forma sintetica, perentoria, dichiarativa, incondizionata, descrittive delle proprie prerogative, o di quelle degli altri (per esempio, “sono un perdente”, “sono un essere inferiore”, “sono un debole”, “sono stupido”).

Se andiamo ad analizzare i pensieri espressione delle credenze intermedie, vediamo che si esprimono in diverse forme. Ci sono i pensieri regolanti che stabiliscono, cioè, norme e doveri comportamentali, regole cui bisogna attenersi per operare nel rispetto delle credenze di base (ad esempio, “devo essere il migliore”, “devo fare le cose in modo perfetto”, “non devo contraddire il mio capo”, “devo sempre avere il controllo delle cose”). 


Umberto Boccioni - Stato mentale 3
Altra forma, espressione delle credenze intermedie, sono i pensieri condizionali, molto simili per significati contenuti a quelli doverizzanti, hanno però la caratteristica di essere meno sintetici, contengono una condizione e la sua conseguenza, quest’ultima può essere sia riferita all’obiettivo da raggiungere, sia riferita alla non osservazione della condizione preposta. Si tratta di regole da rispettare per evitare che le minacce percepite - di volta in volta - possano tradursi in realtà, per evitare d’incorrere nei giudizi negativi altrui (per esempio, “se non sono amato dagli altri, il mio valore è zero”, “se non faccio le cose come si deve, sono una nullità”, “se non riesco in questo, sono un fallito”).