25 febbraio 2014

Il problema della competenza emerge in tutta la sua tragicità quando, a essere ritenuto in gioco, è il proprio ruolo sociale; e la grande paura ultima, è quella di ritrovarsi ai margini della società, sia che si tratti di relazioni di tipo economico e/o lavorativo, sia che si tratti di relazioni di tipo affettivo o amicale.

Paul Klee - perso
L’essere umano è un animale gregario. Essere accettati nel consesso sociale di riferimento, essere riconosciuti quali portatori di valori o di funzioni positive, essere considerati amabili, interessanti come persona, è un bisogno che, in taluni casi, assurge al titolo ossessivo di necessità: è quel che accade alle persone afflitte dalle varie forme di ansia sociale come la timidezza.

Questo bisogno-necessità è spesso veicolato culturalmente. Possiamo facilmente ritrovare precetti familiari ispirati alla necessità del primeggiare, a un’esasperata logica di competizione; nell’evitare ossessivamente ogni comportamento difforme dai valori, dai contenuti e dai significati accettati negli ambienti sociali di riferimento. 


Per vincere la timidezza, le paure, l’ansia


ADDIO TIMIDEZZA

Manuale di auto terapia, teorico e pratico, strutturato su tecniche cognitivo comportamentali.

Per l’ansia da esame, l’ansia da relazione, l’ansia del manifestarsi in pubblico, la timidezza.

Per chi si sente incapace, fallito/a, stupido/a, imbranato/a, inabile nelle rapporti con gli altri.



Per acquistarlo 


17 febbraio 2014

Il fantasticare è un’attività creativa piuttosto diffusa nel genere umano. Tuttavia, nelle varie forme di ansia sociale, e quindi anche nella timidezza, oltre ad essere un esercizio proteso verso il mondo esterno, assume anche la peculiare caratteristica di dirigere l’attenzione verso le percezioni del sé nelle relazioni con gli altri. 

Il territorio immaginifico del contesto sociale in cui si svolge la costruzione fantastica sarebbe, dunque, la scena in cui la percezione del sé entra in relazione con il desiderio di essere altro da sé. 

In ciò concorre il problema dualistico dell’accettazione di se stessi, e di sé presso gli altri.

Quando si ha il problema dell'accettazione, l'io che sogniamo di essere, è privo di quelle carenze che riteniamo di avere; è un io che sa muoversi nel mondo delle relazioni, che sa affermarsi, che riscuote successo, stima e apprezzamento; che sa gestire il proprio ruolo sociale, che è abile nel problem-solving, che in certi casi è geniale. È un io attraente, che ha personalità, è l'io ideale che vorremmo essere agli occhi degli altri, tali da essere facilmente oggetto dell'amore altrui, è l'io che viene socialmente accettato.

Il problema dell’accettazione di sé presso gli altri, non comporta, necessariamente, la non accettazione di sé verso se stessi. In certi casi, il sogno ad occhi aperti, che si muove in questo solco, può anche essere espressione del desiderio di affermare ciò che si è nei contesti sociali. Qui possono entrare in gioco le credenze sugli altri e il problema del controllo.

Se la persona timida desidera essere altro da sé, il problema dell’accettazione implica anche quello della competenza. Tra queste può esservi una relazione concomitante o discendente e, in tal caso, l’una è una derivata dell’altra.

A ogni conto, il sogno ad occhi aperti esprime il desiderio di riscatto sociale.

Alberta, la cui credenza di base è, “non sono bella”, sogna di essere tanto bella, da essere oggetto del desiderio l’ammirazione di tutti. Michele, la cui credenza di base “non sono attraente come persona”, sogna i commenti positivi di altri, sulla sua persona e le sue abilità, alla presenza della donna di cui è segretamente innamorato. Sandro, la cui credenza di base è, “sono un fallito”, sogna di essere lo scienziato che salva il mondo dalla catastrofe assoluta, e finisce con l’essere venerato, amato e vezzeggiato. Sara la cui credenza di base è “sono una stupida”, s’immagina con l’uomo che ama, senza blocchi emotivi, sciolta, loquace, sorridente, amabile.

È indubbiamente una fuga dalla realtà di un presente che non si riesce a vivere, una sorta di liberazione, una consolazione per non continuare ad affondare in un magma di pensieri negativi. E pur tuttavia è, al tempo stesso, un presente prigioniero della dimensione mentale, e proprio per questo, ancora una volta non vissuto.

Ciò nonostante penso che l'utilità o il danno, dipendano dalla frequenza con cui si ricorre a tale pratica; dalla durata di ognuno di questi momenti; in quali contesti reali, situazioni o momenti della giornata si svolgono; da quanto si è ansiosi sociali. 
Pensare di abbandonare una pratica di punto in bianco può essere deleterio o fallimentare, molto meglio puntare a gestire.
Si può provare, e qui si tratta in un certo senso di sperimentare, con l'associare la pratica del sogno ad occhi aperti, con quella della meditazione consapevole, accoppiandole o alternandole. 

10 febbraio 2014

parte seconda


Questo particolare schema mentale si verifica, per lo più, nelle persone timide, e in generale, negli ansiosi sociali che hanno credenze di base disfunzionali, attinenti al problema della competenza, cioè definizioni del sé, secondo cui, queste, sono inabili nelle relazioni sociali e/o incapaci a fronteggiare con efficacia determinate situazioni, inadeguate in determinate attività.

Se una esperienza si risolve con un successo totale o parziale, contrariamente a quanto previsto dalle credenze disfunzionali attivate, inerenti la competenza, si verifica un conflitto cognitivo.


Matias Klarwein - albero concettuale
Da una parte ci sono le credenze disfunzionali che definiscono il soggetto timido come inadeguato; dall’altra, c’è l’esperienza oggettiva, conclusasi positivamente, che dimostra il contrario della definizione di base del sé. 

L’esperienza, in questo caso, si pone come invalidazione della credenza attivata. 

Il conflitto, tra il valore della credenza disfunzionale e la sua invalidazione, si risolve in funzione di quanto è radicata la credenza posta in crisi di validità. 

Maggiore è la quantità dei rinforzi che questa ha ricevuto nel corso del tempo, minore è la possibilità che tale credenza venga invalidata.

Una credenza fortemente ancorata, rappresenta uno schema di memoria, il cui venir meno, pone il sistema cognitivo, nella condizione di trovarsi con un vuoto interpretativo che non sa come riempire. 

In queste situazioni, si attivano i meccanismi mentali votati alla difesa degli schemi cognitivi esistenti, cioè gli stili di crescita della conoscenza; in questo contesto si inserisce la minimizzazione.

Tizia, che ha la credenza “io sono inferiore”, supera un esame all’università con 30 e lode, ma ritiene di essere stata semplicemente fortunata. Caio, che ha la credenza, “sono un incapace”, esegue una buona performance canora e riceve gli applausi dei presenti, ma pensa che si trattasse di applausi di cortesia. Giorgio, che ha la credenza “io sono un fallito”, conclude con successo il compito che gli era stato affidato, ma ritiene che la mansione era semplicemente facile. Vanessa, che ha la credenza “io sono brutta”, conosce un uomo che le dice che è molto bella, lei pensa che tale affermazione è stata fatta per evitarle un dispiacere.

La minimizzazione, svalutando il valore positivo dell’esperienza, conferisce, agli effetti risultanti dal comportamento attuato, una valenza negativa. (ricordo che per comportamento s’intende sia ciò che si fa, sia ciò che si dice)

Cambiando segno alla valenza, si chiude alla prospettiva dell’invalidazione e, avendo trasformato ciò che è positivo in negativo, la si trasforma nella conferma dello schema cognitivo disfunzionale.

Tizio conferma la sua idea d’inferiorità; Caio, rafforza la sua convinzione di essere un incapace; Giorgio, convalida il suo percepirsi come un fallito; Vanessa, ribadisce la sua bruttezza.
Gli esempi che ho appena fatto, rendono bene l’idea di come, ciò che può apparire come semplice riduzione di valore di una positività anche minima, sia in realtà, un potente processo di svalutazione del sé, di rinforzo degli assetti cognitivi disfunzionali, di perpetuazione dello stato di crisi interiore.

5 febbraio 2014

parte prima

Una persona è timida o afflitta da altre forme di ansia sociale, quando il suo sistema cognitivo adotta definizioni di base (credenze), di sé o degli altri, che non sono funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi e/o all’adattamento nell’ambiente in cui vive e opera.

Le credenze di base disfunzionali adottate dal sistema cognitivo, costituendo l’informazione di partenza su cui sono costruite le elaborazioni logiche, destinate a definire le risposte agli stimoli ricevuti, siano essi interni o esterni, influenzano in modo determinante, non solo il percorso intermedio del processo elaborativo, ma anche le  determinazioni finali cui perviene, e che si esprimono, in termini di comportamento e di pensiero.

Silvano Bruscella - altro lato
Tutto ciò può renderci chiara l’idea di come, in conseguenza di una credenza di base disfunzionale, si possano formare schemi logici non funzionali di valutazione e di ragionamento, collegati agli eventi attivanti la credenza di base.

C’è anche un altro fenomeno che entra in gioco, come conseguenza dei comportamenti attuati, il rinforzo.

Il rinforzo costituisce la conferma della validità di una credenza di base o intermedia o di un pensiero automatico o di un intero schema cognitivo. 

Non si tratta di una semplice convalidazione; il rinforzo, consolida ulteriormente il valore della credenza confermata, la quale, diventa più resistente ai processi d’invalidazione, che sono di fondamentale importanza ai fini del raggiungimento degli obiettivi, e del miglioramento delle capacità adattative dell’individuo.

Il rinforzo non è altro che un pensiero, o un insieme di pensieri, che confermano la validità dei pensieri che, prima e durante la situazione ansiogena, sono passati per la mente del soggetto timido. 

I pensieri di rinforzo, non si manifestano solo in forma cosciente, né soltanto in forma verbale, possono essere prese d’atto non verbali, puri atti di coscienza, possono essere istigati dalla cessazione dei sintomi dell’ansia e/o dalla scomparsa dell’emozione della paura, così come possono essere “pensiero razionalizzante”. Il risultato è, comunque, sempre lo stesso, il consolidamento e il radicamento dello schema cognitivo disfunzionale.

Tra gli schemi logici disfunzionali, possiamo annoverare le distorsioni cognitive e, tra queste, la minimizzazione. 

Si tratta di un modello di ragionamento, che tende a sminuire il valore delle esperienze vissute, dei comportamenti attuati, delle performance di qualsiasi tipo, persino dei pensieri che si sono avuti in un particolare momento. 

Insieme a questi eventi, vengono sminuiti anche gli effetti positivi che si sono verificati. 

La minimizzazione si pone come negazione del valore e, di conseguenza, di ogni merito individuale. 

Essa è, al tempo stesso, anche uno strumento, facente parte delle strutture protettive degli schemi cognitivi, operanti all’interno dei cosiddetti “stili di crescita della conoscenza, di cui parlerò nella seconda parte.