28 aprile 2014



Per dare l’idea di come possa formarsi un modo di pensare disfunzionale, ricorrerò al caso di un ragazzo cui era stata diagnosticata la fobia sociale. Non aveva il coraggio di avvicinarsi alle persone per interloquire con loro.

R: insomma, non ho il coraggio di avvicinarmi alle persone e parlare con loro, figuriamoci poi con le ragazze.
D: cosa ti viene in mente in quei momenti?
R: beh, che vado li a rompergli le scatole. Insomma, è se gli do fastidio?
D: è come fai a sapere che gli dai fastidio se non ti avvicini e glielo chiedi?
R: si, ma se lo faccio e gli do fastidio, mi sarò comportato da cafone e avrò fatto proprio quello che volevo evitare.
D: e se non dai loro fastidio? Se a loro sta bene la tua presenza?
R: si ma c’è sempre la possibilità che gli do fastidio.
D: È possibile, ma può essere vero anche il contrario. Non pensi che così, alla fine, finisci che non comunichi mai con nessuno? Che resti sempre da solo? È utile alla tua vita, questo evitare?
R: (con tono ed espressione visiva infastidita) Lei vuole reprimere la libertà di essere me stesso e di pensare con la mia testa. Non rinuncio alla mia dignità.


Luigi De gennaro - la scelta
Qual’ è la dinamica di questo processo cognitivo? 

Nella elaborazione previsionale, egli conferiva un livello di probabilità elevatissima alla possibilità di arrecare disturbo, per cui prediligeva considerare la sola ipotesi negativa. 

Di questa tendenza caratteristica dell’ansioso sociale, che prende in considerazione solo ipotesi negative, e scarta aprioristicamente quelle positive o neutre, ne ho parlato ampiamente nel mio libro “addio timidezza”, e ne ho fatto più volte accenno in altri miei articoli. 

Dunque, l’idea di un insuccesso del tentativo di instaurare una relazione, diventa preminente. 

Questi pensieri negativi trovano sbocco nell’espressione emotiva della paura

Non è neanche necessario che subentrino sintomi d’ansia, il connubio pensiero negativo-emozione è, di per sé, già sufficiente a determinare una scelta comportamentale di evitamento. 

Ma come giustificare, innanzitutto a se stessi, la rinuncia
Soprattutto quando questa privazione non è l’espressione di un comportamento episodico, ma abituale, sistematico, automatico? 

Il sistema cognitivo ha bisogno di uno schema logico su cui fondare e poggiare la strategia di fronteggiamento abituale e sistematica che, nel nostro esempio, è l’evitamento. 

Ha anche la necessità che questo schema del ragionamento logico, sia conforme e confermativo delle credenze sottostanti, che sono il punto di partenza del processo che si conclude col comportamento evitante. 

Ricorrere alla concezione dell’evitamento, non come strategia di fronteggiamento, ma come espressione di una identità personale e culturale, significa conferire valore al contenuto della scelta comportamentale. 

In questo modo l’idea dell’evitamento acquisisce dignità concettuale, pertanto, nel livello cosciente, la si considera una scelta di civiltà, espressione della propria personalità e del libero pensiero.

Ciò è possibile per il fatto che il soggetto non controlla i propri moti inconsci, anzi, non li conosce. 

Questa costruzione teorica è, dunque, figlia della necessità del sistema cognitivo, nel suo livello inconscio, di produrre un sistema logico a difesa dei propri schemi cognitivi esistenti, anche e soprattutto di quelli disfunzionali, visto che quelli funzionali, sono tali, perché riescono a essere sottoposti alle invalidazioni e ne recepiscono le istanze evolutive.

A livello cosciente, invece, questi modi di pensare disfunzionali, appaiono come espressione delle proprie qualità intellettuali.





Il manuale di auto terapia per le ansie sociali e la timidezza

22 aprile 2014


Ho più volte affermato che la timidezza, e altre forme di ansia sociale, pur comportando pensieri negativi e/o disfunzionali, non implica, che ogni tipo di pensiero, o ogni ragionamento sia, necessariamente, disadattivo o irrazionale.

E ciò è abbastanza facile da dimostrare visto che, la storia ci consegna numerosi esempi di grandi scienziati e artisti afflitti da forme di ansia sociale.



Francesco Vaglica - la scelta
In realtà, i pensieri che risultano essere disadattivi o irrazionali, sono soltanto quelli che sottendono schemi cognitivi disfunzionali e che, quindi, derivano da credenze di base inadeguate.

Dato che la timidezza, le fobie sociali e altre ansie sociali, esistono in quanto riferite al mondo delle relazioni sociali, ne discende che i pensieri, i modi di pensare e ragionare, condizionati dalle dinamiche psichiche di tali disagi o disturbi, sono solo quelli inerenti gli altri e i sistemi di relazione sociale.

Tuttavia, nonostante la limitatezza del campo d’azione, l’umana capacità produttiva di costrutti ideali inerenti la sfera delle relazioni sociali, può esprimersi in quantità “industriali”.


Gli schemi cognitivi disfunzionali coinvolti nelle dinamiche psicologiche, che possiamo riscontrare nelle persone timide, e negli ansiosi in generale, sono capaci di indurre la elaborazione di veri e propri modi di pensare, che possono assumere anche forme filosofiche, e collegarsi a principi, non propriamente attinenti gli schermi disadattivi sottostanti, oppure che attingono a valori collettivi.


Questi costrutti ideali infecondi svolgono, come funzione, il ruolo di giustificazione teorica, soprattutto a livello cosciente, di credenze e comportamenti disfunzionali. 


Sono, talvolta, utilizzati anche come strumento di resistenza al cambiamento proposto in psicoterapia. 


Infatti, possiamo riscontrare tali costrutti all’interno dalle strategie per ridurre o annullare gli effetti dell’invalidazione, e che quindi, possono costituire uno stile di crescita della conoscenza come, ad esempio, quelli dell’immunizzazione o dell’ostilità.


Quindi, da un lato agiscono come supporto teorico alle strategie di fronteggiamento disadattive come l’evitamento e l’elusione,  o come pensieri razionalizzanti post comportamentali; dalla altro si pongono come strumenti di difesa, conferma e rinforzo degli schemi cognitivi disfunzionali.


Gli individui timidi, i fobici sociali e gli afflitti da altre forme di ansia sociale, considerano questi costrutti ideali, formatosi in tal guisa, come fondanti della propria personalità culturale, o costituenti della propria indole caratteriale di base o innata.


Ad essi sfugge del tutto la reale genesi della formazione di questi modi di pensare, anche perché sono processi, la cui gestazione, si sviluppa a un livello inconscio; pertanto, non hanno consapevolezza del fenomeno induttivo da cui derivano. 


Una persona timida o ansiosa sociale, considera questi costrutti, come frutto di elaborazione intellettuale, e delle proprie capacità razionali e concettuali. Questa, è una delle ragioni per le quali, alcuni modi di pensare disadattivi, sono difficili da modificare o sostituire in sede di psicoterapia, infatti, è possibile che i tentativi svolti in tale direzione, possano incontrare l’opposizione del paziente.

7 aprile 2014

Se la cognizione è una funzione che ci permette di raccogliere informazioni sul mondo esterno e su quello interiore e, allo stesso tempo, di analizzarle, valutarle, memorizzarle, trasformarle o crearne di nuove; la metacognizione è l’auto riflessione sulle proprie cognizioni. 

Con quest’attività noi meditiamo sul nostro stesso stato mentale, sui processi conoscitivi che si sviluppano dentro di noi.

Dato che la cognizione si manifesta attraverso il pensiero, la metacognizione è metapensiero. Quindi, la metacognizione è il pensare sui propri pensieri.



Schiele - colui che vede se stesso
In condizioni normali, essa ci permette di approfondire il contenuto e le forme dei nostri pensieri e, pertanto, di poter indirizzare i nostri percorsi di apprendimento.

Grazie alle metacognizioni noi possiamo costruire dei piani o programmi cognitivi e metacognitivi, destinati a indirizzare il nostro comportamento ma anche i nostri approcci mentali alle problematiche.

La gran parte dei teorici suddivide la metacognizione in conoscenza metacognitiva e regolazione metacognitive, a seconda che tali attività si svolgono in relazione alla conoscenza e all’apprendimento oppure in relazione all’attenzione, al monitoraggio, al controllo alla pianificazione la rivelazione degli errori.


1 aprile 2014

La paura è un meccanismo d’allarme proprio delle forme di vita animale. È innata e fa dunque parte del nostro corredo genetico relativamente a quell’insieme di funzioni automatiche che potremmo anche chiamare di “istinto animale”. 

La sua funzione è di favorire l’attivazione delle strategie di fronteggiamento del pericolo e predisporre l’organismo (mente e corpo) alle azioni di lotta o di fuga.

Potrai comprendere come la paura, di per sé, non è da considerare un fenomeno negativo. 

A questo punto si rende, però, necessaria una distinzione. 
Se è vero che la paura è un fenomeno naturale, insito della specie umana, è anche vero che essa è generata dalla percezione cognitiva del pericolo.


Alberto Sughi - andare dove
In ciò, l’apprendimento svolge una funzione regolatrice. Con l’esperienza, infatti, l’uomo, apprende a valutare le tipologie del pericolo, la sua possibile entità, il tipo di danno che può produrre. Impariamo, cioè, a distinguere tra un pericolo oggettivo e un pericolo apparente o irrilevante. Grazie all’apprendimento esperienziale, impariamo anche a valutare se un pericolo oggettivo è da intendere, come possibile oppure certo e immanente; e nel momento in cui lo giudichiamo come possibile siamo anche in grado di stimare un livello probabilistico.

L’apprendimento, dunque, favorisce un’attività discriminante nella valutazione del pericolo, e ciò fa si che l’attivazione emotiva della paura, possa non verificarsi affatto, oppure, manifestarsi in diversi livelli d’intensità, dalla semplice lieve preoccupazione al terrore assoluto.