23 giugno 2015


La mindfulness, oggi, va intesa come una categoria, un insieme di tecniche, di tipo meditativo, in cui confluiscono diverse esperienze provenienti da vari canali culturali e di ricerca. Fondamentalmente la possiamo suddividere in due gruppi principali: la meditazione consapevole e la consapevolezza distaccata. 

La prima è più direttamente discendente dalla cultura buddista, mentre la seconda è una rielaborazione che si è sviluppata nell’ambito della ricerca della psicologia cognitivo comportamentale di terza generazione.

Voglio precisare che la pratica della mindfulness non ha nulla di ascetico, religioso, mistico, spirituale. È una pratica con i piedi ben piantati a terra.


Giampaolo Ghisetti - chi siamo
L’individuo può essere alla mercé di costanti sbalzi d’umore, di forti stati emotivi, di stati ansiosi. 

Uno degli obiettivi della mindfulness è il raggiungimento di un buon grado di resistenza ai fattori di stress, evitando che ci si abbandoni passivamente alle sensazioni che si provano, senza necessariamente porsi in modo antagonista.

Nella psicoterapia cognitivo comportamentale, il ricorso alla mindfulness, si pone l’obiettivo di un processo di distanziamento critico dagli schemi cognitivi disfunzionali, a ridurre il ricorso all’evitamento e ad aumentare il repertorio comportamentale mediante le tecniche di consapevolezza, distacco e accettazione non giudicante. 


18 giugno 2015


Con la locuzione “esperienze interne” s’intende tutto ciò che è vissuto dal nostro stato cosciente, che proviene sia dall’esterno che dall’interno, e si presenta in qualsiasi forma e modo. In breve è l’insieme degli stimoli che riceviamo e interpretiamo.

Queste ci inducono a risposte in termini di stati emotivi, valutazioni cognitive e risposte di natura fisiologica.


Giorgio de Chirico - la commedia e la tragedia
Il modo con cui ci rapportiamo alle esperienze interne determina una relazione che è caratterizzata da modelli interpretativi, stili di pensiero, che descrivono una determinata impostazione nel processare cognitivamente gli stimoli, e nell’attivazione di peculiari fenomeni emotivi e ansiogeni.

Con l’ansia sociale e la timidezza, queste impostazioni cognitive ed emotive, col tempo, tendono ad avere carattere abituale, fino anche a diventare una modalità automatica.

Nel momento in cui il rapporto con le esperienze interne acquisisce un suo stile esplicativo, le situazioni, gli eventi e i comportamenti altrui (ma anche propri) sono vissuti sempre nello stesso modo.


12 giugno 2015


Spesso mi capita di ascoltare pareri di persone ansiose, sulla razionalità o irrazionalità dei loro comportamenti. Alcuni considerano le loro decisioni, generalmente evitanti, come mancanza di scelta e, quindi, privi di razionalità, ma come il risultato di processi automatici determinati dalla propria patologia.

L’impressione che ne, ho da questa valutazione, è che la patologia venga, in un certo senso, personificata. 

Penso sia bene notare che le patologie psichiche, come le ansie sociali e i disturbi dell’umore, sono dinamiche che si originano in un contesto cognitivo. 

Probabilmente, l’errore sta nel fatto di non considerare i pensieri come fattori del processo elaborativo razionale. 


Enzo Carnebianca – Riflessione - cm 60×80, tempera su tela, 
copyright Enzo Carnebianca by S.I.A.E  Roma 1986- 2105
La razionalità non comporta l’automatica giustezza o efficacia oggettiva negli esiti prodotti dai comportamenti decisi e attuati. 

Quello razionale è un processo di analisi, valutazione e decisione, indipendentemente dal risultato finale che si esplica nell’azione.

La scelta dell’evitamento è razionale, e il suo scopo è di evitare una sofferenza prevista, e tra l’altro, nell’immediato, quello scopo è quasi sempre raggiunto. 

Pincopallino, ad esempio, ritenendo che un suo approccio verso una sconosciuta sia destinato a una figura di merda e/o non idoneo alla sua indole attuale, evita di farlo, e la prevista brutta figura non si verifica: in questo egli raggiunge l’obiettivo che si è dato.
Pensare che il ragionamento di Pincopallino non sia logico è un errore. 
Vediamo perché.


3 giugno 2015


Tra le tante definizioni della timidezza, una delle più comuni è quella che la descrive come paura di essere esposti o sottoposti al giudizio altrui. 

Questa peculiarità è condivisa anche da altre forme di ansia sociale, come la fobia sociale e il comportamento evitante della personalità. Non a caso queste tre forme di disagio sociale, hanno caratteristiche che sfumano l’una nell’altra; tanto che sono sovente confuse tra loro.

Per un individuo timido, l’esposizione al rischio del giudizio altrui che, nei suoi pensieri previsionali è sempre supposto negativo, equivale alla manifestazione esplicita, e involontaria, d’inadeguatezze che ritiene di avere: “Gli altri penseranno che sono stupido/a”; “Si accorgeranno che sono timido/a e impacciato/a”; “penseranno che sono un fallito”.


Pablo Picasso - la supplicante
Per altri versi, la convinzione di una propria inadeguatezza induce, la persona timida, ad altre credenze correlate e/o implicite: l’inferiorità agli altri, l’incapacità al problem-solving, la scarsa capacità di autonomia: “Non sono all’altezza di loro”; “loro sì, che ci sanno fare”; “non sarò mai come loro”.

È in quest’ultimo scenario cognitivo che matura la forma più marcata di dipendenza dalle valutazioni altrui. Spesso questa conduce a comportamenti di subalternità.

In questi ultimi casi, l’ansioso sociale che si percepisce inadeguato e, per implicazione, inferiore o non capace, tende, nella manifestazione del proprio comportamento evitante, a non assumere ruoli decisionali e responsabilità: “È meglio evitare di assumere responsabilità e schivare le difficoltà, piuttosto che doverle affrontare”; “Sono debole e incapace, meglio dipendere dagli altri”.